Gianni Bergamaschi

 

“Narrative Guitar” VS Tecno-automatismi

 

   

Se me amasses

Eu me transformaria no que sou

 

Se mi amassi,

In quel che sono mi trasformerei

 

(Murilo Mendes, Mondo enigma, Einaudi, 1976, pp. 48-9)

 

 

1.  Premessa  

 

In effetti, troppo spesso rinunciamo, più o meno consapevolmente, più o meno dolorosamente, ad essere noi stessi, e cominciamo a bluffare, a millantare e a mentire, unicamente per colpa di quella fottuta paura che abbiamo di non essere compresi, accettati, amati per quel che veramente siamo, nudi:  

 

“mon corps ne trouve jamais son degré zéro, personne ne lui donne (peut être seule ma mère ? Car ce n’est pas l’indifférence qui enlève le poids de l’image […], c’est l’amour, l’amour extrême) » (R, Barthes, La chambre claire, Cahiers du Cinéma, édition de l’étoile, Gallimard, Seuil, 1980, p. 27).  

 

Ma scrive Lisa Engelhardt, nel volumetto Guarire con l’accettazione (ELLE DICI, 1998):  

 

Smettila di voler essere perfetto. Dentro di te c’è tutto quello che ti serve per essere la persona che devi essere. / Accetta l’umano che è in te: ti è concesso di sbagliare. / Non cercare di piacere al mondo intero. La carità incomincia a casa propria. / Non rinnegare niente di te stesso; quello che tu consideri “spazzatura” potrebbe diventare fertilizzante per produrre nuova vita.  

 

E allora il presente lavoro nasce esattamente dal riconoscimento di una chiarissima evidenza: per uscire dalle secche di una visione asettica, “esperta”, tecnicistica, “difensivo-timorosa”, arroccata, e quindi falsa e inespressiva della musica e/o della chitarra, è proprio necessario confrontarsi serenamente con se stessi e con gli altri, soprattutto iniziando a porsi dalla parte del pubblico, infilandosi nei suoi panni, nelle sue scarpe, “ascoltandone” con rispetto e sincero interesse i pensieri, i sentimenti, le emozioni.

Nel contempo, vorrei con questo saggio poter giovare non soltanto a chi concretamente produce musica, bensì pure a tutti coloro che, semplicemente ascoltandone, si trovassero ad avvertire una gran voglia di “accedervi” un po’ meglio, cioè adeguatamente provvisti di qualche serio strumento di decodifica e classificazione. Insomma, di qualcosa che li aiuti a fare maggior chiarezza.

Ciò che serve è una chiave, una nuova chiave di lettura, che faccia bene anche ai fruitori, oltre che ai musicisti, ammesso che questi ultimi si rassegnino finalmente a riconoscere che è tramontato il tempo dei privilegiati depositari, degli insindacabili sacerdoti di chissà quali arcani, e quindi a fare i conti con qualcosa di meglio che non l’orrore di essere valutati-giudicati-rifiutati da un qualsiasi pubblico.

Sempre che abbiano del “vero” da “comunicare” a qualcuno.  

 

Il quadro empirico-concettuale che qui verrà sottoposto all’attenzione del lettore nasce dalla riflessione su un’ultratrentennale pratica della musica e una ventennale esperienza di insegnamento quale docente di lettere presso la scuola media, da lunghissimi e disincantati periodi di attento e lucido ascolto (a cui vanno ovviamente aggiunti quelli irriflessi e pre-musicali della prima fanciullezza, anch’essi oltremodo formativi), e soprattutto dal desiderio di cercare correttamente, e possibilmente scoprire, un criterio, pratico e insieme teorico, che possa da una parte disciplinare e rendere più consapevole “a monte” il concreto lavoro creativo dell’artista, dall’altra conferire maggior trasparenza e coesione a determinati giudizi valutativo-discriminativi emessi “a valle”, cioè in fase di fruizione, soprattutto da parecchi critici della vecchia guardia (per non dire, tout court, “vecchi”), troppo di frequente custodi e passivi ripetitori di una zoppicante lettera morta. 

Tale criterio è stato, alla fine, trovato innanzitutto in una modalità di approccio multiprospettico e interdisciplinare, nel senso che di nessuna branca del sapere umano (fisica, ottica, psicologia, psicanalisi, sport, pittura, teatro, cinema, musica, semiotica, linguistica, narratologia, pedagogia, storia, astronomia, poesia, ecc.) si è rifiutato a priori l’apporto, in termini di punti di vista, suggestioni, contenuti, metodi e strumenti, certamente loro specifici, ma oltre ogni immaginazione proficuamente trasferibili, spendibili (soprattutto nella veste di affascinanti metafore) in contesti verosimilmente non poco remoti da quelli d’origine.

Si pensi, ad esempio, alle sole nozioni di “epiciclo” o “campo” nella misura in cui esse verranno più avanti utilizzate in sede di analisi di un’esperienza sonoro-musicale indiscutibilmente distante da ogni loro più diretto e prevedibile ambito di pertinenza.

Poi, si è compiuta un’ulteriore scelta eleggendo la “teoria del racconto”, e quindi un’interpretazione narrativa del fare e “negoziare” musica, quale inedito taglio da dare all’intero studio, che in tal modo conserverà, sia pure nella discreta originalità di talune escogitazioni (per di più espresse all’occorrenza in maniera assai vagante, tentativa o ipotetica), parecchie buone probabilità di reggersi, di stare assieme proprio grazie a tale costante attenzione per tutte quelle competenze a carattere non solo semiologico, ma anche psicologico, storico, sociologico, letterario, ecc. che necessariamente attengono al “saper costruire delle storie”.

Quindi, l’intero lavoro potrà essere letto, in sintesi, come un andarsene più o meno liberamente “interdisciplinando”, tenendo comunque sempre sott’occhio l’importante “piacere” della narrazione e le relative indispensabili tecniche.

D’altronde, un’autentica soluzione al problema della “paura di essere se stessi”, ovvero dell’ossessivo ricorso a tutto un repertorio più o meno ufficializzato e standardizzato di “tecno-automatismi”, di cui i pattern non sono che un momento particolare (ben altre “leggi” gravano sulla musica, disciplinandola nel numero delle battute costituenti il modulo costruttivo di un certo tipo di composizione, che siano 8, 12, 32 o chi più ne ha più ne metta, nelle specifiche architetture, del tipo Intro - A1 - A2 – B - A1 - Coda, negli aspetti ritmici, armonico-modali e via dicendo), non può essere cercata entro un angusto ambito puramente musicale, essendo l’obiettivo specifico del presente discorso il conseguimento di una creatività (in sede di composizione e/o improvvisazione) svincolata dalla passiva imitazione (che può benissimo assurgere anche a livelli di smagliante virtuosismo, ma inutilmente, cioè senza per questo depurarsi dei suoi caratteri più deleteri) di modelli e da una visione “soltanto musicale” della musica.

 

 

2.  I “pattern” 

 

 

2. 1

In che cosa consistono, esattamente? Perché volersene sbarazzare ad ogni costo? Forse non comunicano anch’essi qualcosa?

   

 

I pattern non sono che “frasi fatte”, “locuzioni prefabbricate” (proprio come quelle a disposizione di certo linguaggio verbale. E viene in mente il logorroico ciarlare fitto fitto di chi, semplicemente “pronunciando”, non ha bisogno di pensare a quel che dice, lasciandosi al contrario macchinalmente “fare” da stereotipi linguistici, e ideologici, oramai stabilmente posseduti: è l’inconsistente, vano, improduttivo e ridondante discorrere dei pettegoli), comprese le proprie: anche queste, una volta memorizzate, possono tranquillamente essere suonate “senza riflettere, per abitudine” (Fabio Mariani, Trattato di chitarra jazz, 2, Franco Muzzio Editore, 1986, p. 174).

I pattern sono quelle frasi con cui chiunque metta mano su una tastiera inizia a suonare, cercando di non rischiare troppo. Salvo che poi il gioco prosegue spesso senza mutare logica, trasformandosi, con l’andar del tempo e il lasciare andar le cose, in un comodo e permanente habitus.

Come se ciò non bastasse, si scopre poi che il caro e rassicurante buon vecchio pattern fa star bene non solo chi suona, ma, come si vedrà, anche chi ascolta.

Non tutti i generi musicali, fortunatamente, sembrano fare affidamento in egual misura, o con platealità parimenti sfacciata su dei modelli da imitare. Normalmente se ne staccano, ad esempio, la migliore musica classica (e la ragione va forse cercata frugando con la nostra “lanterna” narrativa), o il jazz dei più grandi compositori/esecutori, per inventività e creatività. Ma non c’entra il colore della pelle, se è vero che anche nella storia del jazz moltissimi musicisti smentiscono la filosofia del rischio insita nell’improvvisazione, ricorrendo ad assoli standard sui brani del loro repertorio. Armstrong e Parker, ad esempio, su uno stesso pezzo riproponevano sempre il medesimo assolo, e in generale i musicisti neri improvvisano molto meno dei bianchi, per ragioni di ordine razziale, ovvero per una sorta di difficoltà ad assumersi il rischio di un insuccesso di fronte all’uomo bianco [liberamente, da un’intervista a Giovanni Tommaso, in Musica jazz].

Al contrario, parecchio country e blues (ad es., la musica di B. B. King) sembra persino compiacersi di un’elevatissima densità di stereotipi (melodici, armonici, ritmici, timbrici, stilistici e strutturali), assai verosimilmente costitutivi, fondanti e dunque “caratteristici”, cioè “tipici”. Nel senso che quelle musiche non sarebbero quelle musiche se prescindessero da quella esatta sintassi, da quel caratteristico (per non dire “pittoresco”) lessico musicale e, in ultima analisi, da quel preciso e inconfondibile “spirito”.

I concetti di “innovazione” o “sperimentazione” non sembrano riguardare affatto né l’uno né l’altro dei due generi appena considerati.

Per il jazz e il blues esiste poi il problema degli “standard”.

Si tratta per lo più di song oramai ampiamente collaudati sotto qualsiasi latitudine, e quindi necessariamente inclusi nell’enciclopedia (etimologicamente intesa, come “educazione circolare, organica e portatile”) di ogni esecutore che si rispetti, e destinati a dimostrarsi, anche nelle più imprevedibili evenienze performative, un utile bagaglio di temi-canovaccio (per giunta su tonalità anch’esse solitamente fisse e condivise) che possano consentire a chiunque di suonare dovunque e in qualsiasi momento con chicchessia.

Un po’ come il latino nel medioevo. E questo non fu poi il peggiore dei mali.

Ma la musica non può fermarsi lì. Non può accontentarsi di somigliare ad un’intesa puramente verbale tra due sconosciuti che si illudono di conoscere a fondo Hegel solo per averlo studiato entrambi sulle pagine di uno stesso decrepito manuale scolastico così da poterne parlarne indistintamente a Roma come a Parigi.

“Gli standard hanno in pratica i medesimi giri armonici, e la tendenza a concentrarsi sulle armonie porta spesso i solisti a ripetere gli stessi fraseggi nelle stesse situazioni armoniche (pattern, cliché), indipendentemente dall’identità melodica del brano suonato” (M. Piras, A lezione da Bruce Forman, in Musica Jazz), come avviene, ad esempio, se in corrispondenza di determinati turnaround (Dbm7 , C7,  F7+, Bb7) si è piuttosto propensi a lasciarsi “condurre” dalle armonie stesse, risolvendo quindi il passaggio con una sequenza melodica single note la cui novità-inventività è destinata ad apparire solo inversamente proporzionale alla sua eleganza tecnico-armonica.

È per questo che moltissimi chitarristi affrontano con impegno “matto e disperatissimo” i fraseggi dei grandi musicisti sui cambi d’accordo, mentre soltanto a certi “livelli” (ma qui non è più questione di dimostrarsi dei puri “esecutori”) può valere la saggia osservazione di John Scofield: “Quanto ai piccoli ‘motivi’ su cui ciascun chitarrista fa affidamento, quel che conta è ciò che con essi si riesce a fare”.

 

 

 

2. 2

I pattern in musica come le “teorie tolemaiche” nella scienza, i “modelli” in letteratura o nelle altre arti, ecc.

 

Che valore potremmo mai avere, ad esempio sul piano letterario, se ci limitassimo ad essere degli “autori” (anche nel senso di semplici “parlanti”) in grado di produrre unicamente “opere” (atti linguistici) fondate su una servile, e magari anche pedestre, riproduzione-ri(petizione) di pattern istituiti per selezione sulla scorta di testi prodotti in passato da altri?

Certo, la “Tradizione” sarà importante, ma non al punto da dover necessariamente mortificare (mediante tutta una serie di ingiustificabili ipse dixit) ogni istinto creativo individuale e divergente: che è poi l’esatto spirito con cui liberamente ricercarono, indagarono, scoprirono e inventarono (cfr. Galileo su Aristotele e gli aristotelici) tutti quegli autori che oggi veneriamo come riferimenti assoluti, paradossalmente divenuti (proprio loro!) normativi.

Nella musica jazz: chi si sarebbe mai sognato di poter suonare impunemente delle melodie ad ottave utilizzando il pollice in luogo del plettro, prima di Wes Montgomery?

E tuttavia: qualcosa che consenta di radicare il nuovo discorso nella tradizione deve pur esistere, pena l’assoluta incomprensibilità (dovuta, per dirla con Shannon e Weaver, ad un eccessivo prevalere dell’“informazione” sulla “ridondanza”; cfr. The Mathematical Theory of Communication, 1949, University of Illinois Press, Urbana).

I “modelli letterari” (come quelli musicali, pittorici e via dicendo) andranno in tal senso letti, esaminati e degustati (ma non meccanicamente memorizzati) al fine di poter verificare direttamente (cioè: non per sentito dire) come il grande bagaglio di regole e materiali fono-morfo-sintattico-lessicali di una certa “lingua” siano stati abilmente ed efficacemente gestiti, e dunque anche modificati e/o arricchiti, da determinati autori: non per “imparare a parlare e scrivere esattamente come loro”.

È più un discorso di metodo che di contenuto: il fine non è la replica, la passiva riproduzione, la costante ed eterna “ricapitolazione” (cfr., in U. Eco, Il nome della rosa, la decrepita visione jorgeana del sapere), bensì la ricerca, la scoperta, l’innovazione creativa, la produzione di nuovi “codici” per nuovi “sensi” (cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, 3.4.11., “Galassie e espressive e nebulose di contenuto”, e G. Stefani, Insegnare la musica, Guaraldi, 1977, sulla “creatività che cambia le regole”):

 

 

O buono Appollo, […]

[…] spira tue

sì come quando Marsia traesti

de la vagina de le membra sue.

 

 

(Dante, La Divina Commedia, Paradiso, Canto I, vv. 13-21)

 

 

Assai più che il “repertorio degli standard” conterà, in tal senso, una consapevole e generale conoscenza/padronanza del sistema di significazione, ovvero di quel patrimonio fono-morfo-sintattico-lessicale di cui si diceva, ovvero del CODICE, in quanto correlazione di significante e significato, da poter sottoporre ad innovazione o, per lo meno, a revisione. 

Quante opere letterarie, musicali o più generalmente artistiche sono invece semplice frutto di un puro esercizio manieristico che non porta avanti il discorso in alcuna direzione interessante…

Anche i pattern (letterari, musicali, artistici, ecc.) appartengono al passato, e per questo se ne interessa la storiografia di ciascun genere o tecnica espressivo-comunicativa; quindi, come non avrebbe senso, oggi, pretendere di esprimersi, ad esempio, come faceva il Manzoni (“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno immortalai in una riuscitissima foto)”, o Dante (“Quando mi diparti’ da Sarzana per tornarmene a casa”), o l’Ariosto (“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto, di fronte a quest’amato pubblico”), o persino il Verga (“Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza, oggi probabilmente asfaltata”), così non può avere molto significato pretendere a tutti i costi di suonare come Wes, come Christian, come Reinhardt.  

 

Ma troppi confondono il dito con la luna, e, ahimè, continuano a scambiare Montgomery con l’“ipse” del “dixit”, con il Master dei pattern…

 

 

 

3.  La “poesia”

 

Si danno almeno un paio di sistemi per tenere a bada la generale tendenza ad esprimersi replicando modelli o collaudate formule.

Entrambi non concernono il livello strettamente “tecnico”, dal momento che consentono di affrontare la questione sul piano dei soli contenuti (concetti e sentimenti).

Il primo consiste nella poesia, “arte e tecnica di composizione in versi, cioè in forme ritmiche estranee alla prosa, mediante cui esprimere idee, sentimenti e realtà secondo la propria visione del mondo” (Dizionario Interattivo Garzanti della Lingua Italiana).

Mi sono servito spesso di quelli che altrove (cfr., sempre in questo sito, nella sezione Didattica, il mio saggio Narrative music” / “narrative guitar”) ho chiamato “interpretanti” poetici, tanto in sede di composizione quanto in fase di concreta esecuzione, al fine di poter comprendere un certo stato d’animo, mettermi nei panni, “immaginare” sentimenti e “storie” da inventare o suonare.

 

 

Tra le mie liriche preferite, le seguenti:

 

 

Murilo Mendes, Mondo enigma

 

Fantasia

 

Sei di spuma e di seta,

Sei al tempo stesso scintilla,

Forma futura di quel che ho previsto in sogno.

 

Osservo eternamente

L’orizzonte convesso

Spiando che arrivi

                              sdoppiata in ala.

 

Se mi amassi

In quel che sono mi trasformerei.

 

 

   

P. Verlaine, Fêtes galantes

 

Canzone d’autunno

 

I lunghi singhiozzi

Dei violini

    D’autunno

Feriscono il mio cuore

Con un languore

    Monotono.

 

Senza respiro

E pallido, quando

    Rintocca l’ora

Io mi ricordo

Dei giorni andati

    E piango;

 

E me ne vado,

Nel vento maligno,

    Che mi porta

Di qua, di là,

Simile alla

    Foglia morta.

   

 

E. Montale, Xenia I

 

Ascoltare era il solo tuo modo di vedere.

Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco.

 

   

E. Montale, Ossi di seppia

 

Corno inglese

 

Il vento che stasera suona attento

- ricorda un forte scotere di lame -

gli strumenti dei fitti alberi e spazza

l’orizzonte di rame

dove strisce di luce si protendono

come aquiloni al cielo che rimbomba

(Nuvole in viaggio, chiari

reami di lassù! D’alti Eldoradi

malchiuse porte!)

e il mare che scaglia a scaglia,

livido, muta colore,

lancia a terra una tromba

di schiume intorte;

il vento che nasce e muore

nell’ora che lenta s’annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento,

cuore.

 

 

 

4.  La “narrazione”

 

Il secondo sistema per non cadere facilmente entro la “rete” dei pattern consiste nella narrazione.

A tale riguardo, la “formula” a cui più volentieri amo riferirmi (e che più avanti verrà ripresa, per essere approfondita), anche nel corso della quotidiana prassi didattica, è la seguente: 

“Quello che fa girare la storia e la rende degna di essere raccontata è la presenza di una crisi: qualcosa che non quadra fra attori, azioni, obiettivi, situazioni e mezzi. La narrazione comincia con un prologo esplicito o implicito che stabilisce la normalità o la legittimità delle sue circostanze iniziali. L’azione poi si sviluppa portando a una rottura, a una violazione delle aspettative legittime.

Quello che viene dopo è il ripristino della legittimità iniziale o un sovvertimento dello stato di cose, che crea un nuovo ordine di legittimità.”  

                                                                 (J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, 1997, p. 107)

 

La sostanza del problema narrativo vi è tanto concretamente individuata che ho voluto trarne un’utile mappa (anche in http://www.bibliolab.it/materiali_dida/bergamaschi_mappa.htm),

 

 

 

 

e me ne sono servito in più di un’occasione, per stimolare i miei alunni di scuola media a produrre dei racconti (realistici o di pura fantasia) strutturati “nel rispetto di ben precise regole”.

 

Così, ad esempio, utilizzando la seguente sintesi cinematografica a mo’ di canovaccio,

 

 

Un boss che vuole concludere un grosso affare si trova a subire una serie di attentati ai danni dei suoi uomini. Inizialmente pensa che siano opera di un rivale, ma poi capisce che l’operazione è gestita dall’IRA.

                                                      (da Il Venerdì, 24 agosto 2002, pagine dedicate ai programmi televisivi)

 

 

V. Z. è riuscito ad imbastire con una certa facilità il seguente racconto, a mio avviso niente male:

 

 

Fortuna è “sfortuna”

 

Sono un noto ricercato. Il mio nome in codice è Oslot Taiden.

Sono un boss mafioso del Giappone, paffutello e basso, il più grande di tutti i tempi.

Ognuno mi cerca, nessuno mi trova.

Il mio braccio destro è Fortune, una donna. La migliore delle donne!

Questa sera andremo al porto, e lì ci consegneranno il carico. Questa è una missione molto facile, e perciò non ammetto errori. Capito?! Le persone a cui dovremo far avere la merce sono molto esigenti. Io non ci sarò perché devo svolgere i miei affari da boss; quindi, esigo da voi il massimo dell’attenzione! 

Quella sera niente fu così facile come sembrava.

Il mio braccio destro Fortune mi ha raccontato che, su sedici uomini, quindici sono morti al porto; uno invece è deceduto mentre in autoambulanza stavano portandolo all’ospedale. Io ho richiesto un’autopsia sul corpo di quest’ultimo. Un proiettile contenente del veleno è stato l’unica cosa che vi hanno trovato: si dischiude all’interno del corpo umano quando raggiunge una precisa temperatura. Gli unici che usano questo tipo di proiettile sono i terroristi dell’IRA.

La cosa che più mi stupisce è che le altre quindici vittime sono state colpite con dei proiettili normali.

Comunque, ora abbiamo due rivali: il boss del gruppo “Shohoku”, a cui avremmo dovuto consegnare il carico, e quelli dell’IRA.

Per fortuna, il mio braccio destro non si è fatto niente: l’hanno solo colpita non gravemente ad un gomito.

Stasera andiamo all’opera. Ci saranno solo criminali di alto rango e attori amici della mafia. Tu vieni, Fortune?

No, ho altri impegni, Oslot. Ma con quale automobile vai? Con la Jaguar o con la Tommy Kaira?

Non so, penso con la Jaguar.”

Quella sera, mentre mi recavo all’opera tra tutte le luci dei club e dei bar che si accendevano e spegnevano ad intermittenza, illuminandomi il viso attraverso i vetri oscurati, ripensavo alla domanda che Fortune mi aveva rivolto. In quel momento sentii un rumore di schianto e un incredibile dolore ad una parte imprecisata del corpo.

Adesso, appena svegliato, mi ritrovo in un carcere di massima sicurezza.

Avevo intuito qualcosa quella sera nell’automobile.

Mentre fissavo la porta, interrompendo per un istante la luce proveniente da fuori si avvicinò un’ombra, assieme ad un rumore di tacchi. La porta si aprì: non capivo bene, ma subito dopo “lei” mi spiegò. Ho avuto un impulso, una voglia irrefrenabile di darle un pugno, ma mi trattenni: non ne valeva la pena.

Il mio braccio destro era un tenente dell’IRA. Non l’organizzazione terroristica irlandese, bensì quella antimafia avente la stessa sigla. I suoi uomini erano tutti d’accordo (si trattava di una nuova squadra, appena costituita, della quale pensavo di potermi fidare: invece li aveva scelti Fortune, dal primo all’ultimo. L’altra squadra, quella originaria era stata completamente sterminata).

L’autopsia l’avevano semplicemente inscenata.

Adesso, mi trovo qua, e dovrei passare tutta la mia vita in questo sudiciume.

Però, se è vero che sono un boss, e lo sono, tutti avranno bisogno di me.

Ho già escogitato un sistema per evadere, e ce la farò…

 

 

Ora, tenendo presente la medesima mappa e interpretandone ogni elemento in senso traslato e “musicale” (come meglio vedremo, affrontando il concetto di “campo”), è possibile creare, ma anche leggere, analizzare e comprendere delle “storie”, per quanto non facilmente, e comunque mai del tutto traducibili in termini verbali, dal momento che attraverso le note è possibile dire, riguardo a un certo genere di contenuti (storie e paesaggi interiori, rarefatti e sublimati, ma intensi, stati e/o dinamismi della psiche, rappresentati nei loro mutui e dialettici rapporti), molto di più che non utilizzando delle semplici parole (cfr. il mio precedente saggio “Narrative music” / “narrative guitar”, par. 7).

 

 

 

5.  Nella musica leggere delle “storie”

   

Musiche “suggestive” di narrazioni soggiacenti

Esistono di fatto delle composizioni, o più spesso delle sequenze organizzate di brani (per me, ad esempio, Secret Story di Pat Metheny, Testify di Phil Collins e via dicendo), che prepotentemente suggeriscono l’esistenza di una storia sottesa, attuale o trascorsa, reale o virtuale, che note, ritmi, timbri, armonie e strutture a loro modo raccontano.

La tentazione di trarre dei racconti

Da certi CD, presi nel loro originario assetto, o da determinate compilation che privatamente e ad arte è possibile costruirsi copiando su un unico supporto, brano dopo brano, le canzoni/musiche per ciascuno di noi più “belle”, viene voglia, assai spesso, di trarre delle storie da noi immaginate, ma che esattamente da quelle precise suggestioni di natura sonoro-musicale prendono spunto.  

“Colonne sonore” per attività creative

Da giovanissimo (scuola media e primi anni di liceo) svolgevo al meglio i miei “temi” domestici, che erano per lo più dei racconti integrati da digressioni a carattere lirico o riflessivo, avendo come colonna sonora di quei miei pomeriggi alcuni dischi, LP o single, dei Beatles, degli Animals, dei Kings, dei Mamas & Papas, e persino dei Rolling Stones (Lady Jane). In particolare, una canzone dei Beach Boys, Sloop John B, mi riportava alla mente con estrema immediatezza svariate sequenze, più o meno cariche di fascino, o alcuni personaggi (tra questi, naturalmente, Phileas Fogg) de Il giro del mondo in 80 giorni, di Jules Verne, uno dei miei eroi, ora come allora, e le mie produzioni trasudavano un po’ di quella stessa “musica”. Come dire, dalle note del “Battello John B”, qualcosa liquidamente glissava nel cuore delle mie parole…

Il terribile potere della lingua

Se poi andavo a curiosare fra i titoli di quelle musiche stupende, quasi per soddisfare una strana curiosità (come se volessi controllare le soluzioni di un gioco enigmistico appena ultimato), e scoprivo che, in fondo, nella mente dell’artista era accaduto qualcosa di simile, se non addirittura identico a quel che si era verificato nella mia, risultava impossibile non provare una certa emozione (difficile a dirsi, ma reale), un’ebbrezza intensa almeno quanto poteva esserlo la delusione che sperimentavo se, al contrario, traducendo finalmente il titolo di un brano (da un inglese che non conoscevo troppo bene, e quindi speculando tra le pagine di un dizionario), mi rendevo purtroppo conto del fatto che il suo referente reale, e dunque l’intera storia immaginata dall’autore del testo e/o della musica, era non solo diversa, ma senza confronto meno intensa di quella che la mia fantasia era riuscita ad imbastire sulla sola scorta delle pure e semplici suggestioni sonoro-musicali.

 

 

 

6.  Un’esperienza d’ascolto con i miei alunni

 

Riflettendo su tutto questo, ho pensato allora di trasferire su un unico supporto digitale una sufficiente quantità di frammenti chitarristici (temi e, soprattutto, soli), tratti da materiale discografico in mio possesso, ovviamente non senza essermi preliminarmente posto il problema di quali artisti e brani scegliere, in base a quale criterio e a quale scopo.

Ne è sortito, alla fine, un utilissimo e pratico CD (prodotto unicamente ad uso privato) contenente 32 estratti di esecuzioni chitarristiche di varia tecnologia e tendenza jazzistica, comunque piuttosto significativi e, soprattutto, di autori-esecutori còlti in alcuni tra i loro “momenti artisticamente più felici” (concetto imperdonabilmente soggettivo!). Che è poi lo stesso materiale parzialmente sottoposto all’attenzione dei miei uditori nel corso del seminario condotto a Sarzana, per la X Convention dell’ADGPA, il giorno 24 maggio 2003.

Il box che segue raccoglie quanto necessario per poter valutare la natura delle mie scelte, ma anche per evitare di dover ripetere ogni volta, nel prosieguo del lavoro, e soprattutto al paragrafo Applicazioni della “grammatica narrativa”: ascolto ragionato di alcuni brani dal “CD Sarzana 2003”, i necessari estremi dei brani a cui si farà di volta in volta riferimento. Basteranno, così, le sole indicazioni numeriche corrispondenti ai vari estratti.

 

 

1.   John Abercrombie. Chorale (John Abercrombie Trio, Speak Of The Devil, ECM, 1994)

2.   Gianni Bergamaschi. Il pleut dans mon cœur (Gianni Bergamaschi, Sunny, Iktius, 1995)

3.   Gianni Bergamaschi. Sunny (Gianni Bergamaschi, Sunny, Iktius, 1995)

4.   Gianni Bergamaschi. Windows (Gianni Bergamaschi, Delta, 1999)

5.   Philip Catherine. Galerie des princes (Philip Catherine, Moods, vol. II,  Criss Cross Jazz, 1992)

6.   Franco Cerri. Nannerl (Cerri & Cerri, DIRE MUSIC, 1993)

7.   Gigi Cifarelli. Letter to Wes (Gigi Cifarelli, Kitchen blues, La Drogueria di Drugolo, 1991)

8.   Joe Diorio. Children's game (Joe Diorio, To Jobim with love, RAM Records, 1996)

9.   Joe Diorio. The summer knows (Joe Diorio, The breeze and I, RAM Records, 1994)

10. Christian Escoudé. Angel face (Christian Escoudé Quartet Pierre Michelot, Live at the Village Vanguard, Polygram S. A. PARIS, 1991)

11. Tal Farlow. Straight, no chaser (Tal Farlow, The return of Tal Farlow, 1969, Prestige Records, 1989)

12. Tal Farlow. You don't know what love is (Tal Farlow, A sign of the times, Concord Jazz, 1977)

13. Bill Frisell. Throughout (Bill Frisell, In line, ECM, 1983)

14. Sandro Gibellini. Felix (Sandro Gibellini, Felix, Tirreno, 1990)

15. Jim Hall. Subsequently (Jim Hall. Subsequently, Music Masters, 1992)

16. Bireli Lagrene. Nuages (Bireli Lagrene, Standards, EMI FRANCE, 1992)

17. Lanfranco Malaguti. Stride and soul (Lanfranco Malaguti, Inside meaning, Splasch Records, 1993)

18. Pat Martino. Israfel (Pat Martino, Baiyina. The clear evidence, 1968, Prestige Records, 1989)

19. Pat Metheny. Something to remind you (Pat Metheny Group, We live here, Geffen, 1995)

20. Pat Metheny-Jim Hall. Don't forget (Jim Hall & Pat Metheny, Telarc, 1999)

21. Wes Montgomery. Says you (Wes Montgomery, Movin’ along, 1960, Original jazz, 1988)

22. Joe Pass. Jo-Wes (Joe Pass, My Song, Telarc, 1993)

23. Emily Remler. In your own sweet way (Emily Remler, Standards, Concord Jazz, 1991)

24. Emily Remler. Softly, as in morning sunrise (Emily Remler, Standards, Concord Jazz, 1991)

25. Lee Ritenour. Sometime ago (Lee Ritenour, Stolen Moments, GPR Records, 1990)

26. Lee Ritenour. Stolen moments (Lee Ritenour, Stolen Moments, GPR Records, 1990)

27. Lee Ritenour. Uptown (Lee Ritenour, Stolen Moments, GPR Records, 1990)

28. John Scofield. Message to my friend (John Scofield & Pat Metheny, I can see your house from here, Blue Note, 1994)

29. John Scofield. No matter what (John Scofield & Pat Metheny, I can see your house from here, Blue Note, 1994)

30. John Scofield. Say the brother's name (John Scofield & Pat Metheny, I can see your house from here, Blue Note, 1994)

31. Mike Stern. What I meant to say (Mike Stern, Is what it is, Atlantic Recording Corporation, 1994)

32. Steve Swallow. No matter what (John Scofield & Pat Metheny, I can see your house from here, Blue Note, 1994)

 

 

Molti di questi brani sono stati “vissuti” dai miei alunni (17) di III media nel corso di un’esperienza d’ascolto (1h), non preceduta/orientata da alcuna introduzione o guida, in cui si è fatto uso, per poter meglio individuare e fissare i diversi contenuti emergenti, unicamente della seguente griglia di “aiuto” (N.B.: senza i titoli dei brani):

 

 

Brani

Chi suona sta raccontando una storia?

Genere (fantasia, fiaba, surrealtà, avventura, viaggio, terrore, thriller, comicità, ecc.), tema, contenuto, ecc.

Chi suona sta descrivendo qualcosa? Che cosa?

(oggetti concreti,  paesaggi, situazioni, “dimensioni” interiori, ecc.)

 

Chi suona si sta esprimendo? (emozioni, sentimenti, stati d’animo)

 

Chi suona sta riflettendo? (su che cosa?)

 

Nulla

2

 

 

 

 

 

5

 

 

 

 

 

7

 

 

 

 

 

8

 

 

 

 

 

10

 

 

 

 

 

11

 

 

 

 

 

13

 

 

 

 

 

15

 

 

 

 

 

16

 

 

 

 

 

17

 

 

 

 

 

18

 

 

 

 

 

 

 

Tra le “letture” ottenute al termine del lavoro, le seguenti (tralascio l’elaborazione statistica delle risposte, ma non le indicazioni numeriche relative a Nulla, per molti versi interessanti):

 

 

Brani

Suggestioni

(circostanze // sentimenti, emozioni, stati d’animo)

F = femmine; M = maschi

Nulla

2.  Bergamaschi. Il pleut dans mon coeur

F. Deserto. Il mare. L’estate. Paesaggio. Sogno. Favola. // Irrealtà. Calma. Tranquillità. Fantasia. Armonia, dolcezza. Desiderio. Tristezza. Romanticismo.

M. Viaggio. Racconto.  // Tristezza.

2

5.  Catherine. Galerie des princes

F. Posto caldo. Brasile. Spiaggia. Viaggio. Sottofondo musicale. Racconto. // Comicità. Rilassamento.

M. Una stanza vuota. Paesi sudamericani. //  Calma. Suspence.

 

1

7.  Cifarelli. Letter to Wes

F. Favola. Avventura. Racconto. Bar-soft. Due persone che si incontrano. Serata al cabaret. Descrizione di un locale. // Felicità. Fantasia, romanticismo.

M. Un vicolo con pioggia. // Tranquillità. Riappacificazione. Solitudine.

3

8.   Diorio. Children's game

F. Viaggio. Un giardino segreto. Racconto monotono. Mare. Amaca. Un uomo che cammina solo per strada. Risveglio. Persone. // Stanchezza. Suspence. Allegria. Rilassamento. Solitudine. Tranquillità. Calma. Riposo.

M. Solitudine. Curiosità.

3

10.  Escoudé. Angel face

F. Voglia di dire troppe cose insieme. Racconto. Fiaba. Ricerca di qualcosa che non si trova. Avventura. Fantasia. Vecchi locali. Luogo pubblico. Racconto della bella vita vissuta. Inseguimento giocoso. Mare. // Ansia. Nostalgia, felicità, compiacimento di sé, della propria vita, soddisfazione. Imprevisto.

M. Una partita a calcio tra amici. Favola. Fiaba, avventura. Calcio di rigore. // Tensione.

3

11.  Farlow. Straight, no chaser

F. Avventura. Viaggio. Viaggio frettoloso. Gente che si rincorre. Dibattito. Vita di città. Sigla TV. Ballo. Movimento. // Suspence. Allegria. Spensieratezza. Comicità. Irrequietezza.

M. Una persona che non sa scegliere. Allegra festa. Due strade ben diverse. Un’auto veloce. // Agitazione. Suspence, tensione.

1

13.  Frisell. Throughout

F. Storia vecchia. Sogno con sfumature. Nuova alba, giorno. Viaggio. Fiaba. Voglia di un sogno che diventi realtà. Un telefono che non squilla. Stati d’animo. // Suspence. Romanticismo. Preoccupazione. Tranquillità, allegria.

M. Due persone, su un prato al tramonto. Momento di attesa. Un acquario con dentro dei pesci. // Romanticismo. Tristezza.

2

15.  Hall. Subsequently

F. Voglia di ballare. Fantascienza. Serata con amici. // Vivacità. Sicurezza. Allegria.

M. Una suonata jazz tra amici. Un bar. Una partita a calcio. // Serenità. Felicità. Divertimento.

5

16.  Lagrene. Nuages

F. Complicità tra due ragazzi. Voglia di conoscersi. Un gatto. Uomo in una strada isolata. Paesaggio. Un giorno tranquillo. // Irrealtà. Mistero. Solitudine. Suspence. Rilassamento. Curiosità. Calma, tristezza. Quiete.

M. Un coro che canta (sottofondo), in chiese prestigiose. Un film d’amore. Un ballo lento. // Serenità. Intimità.

3

17.  Malaguti. Stride and soul

F. Comunicazione di una brutta notizia. Paesaggio tranquillo. Una strada buia. Mare di notte. Deve accadere qualcosa. // Delusione. Tristezza. Tranquillità. Suspence. Paura. Terrore. Pericolo. Rilassamento.

M. Una persona che ha paura. Una luce intermittente. La risacca del mare di sera con delle persone che camminano. // Paura. Disperazione. Monotonia.

1

18.  Martino. Israfel

F. La sveglia non ha suonato. Studente che non ha sentito la sveglia. Paura di arrivare in ritardo. Ballo. Uno scienziato. // Irrealtà. Fantascienza. Soddisfazione. Fretta. Ansia. Movimento. Emozione di nuove scoperte.

M. Una persona è in ritardo per il lavoro. Sta perdendo il tram. Ballo scatenato. Una gara di velocità. // Agitazione. Frenesia, agitazione.

4

 

 

Osservazioni  

1.

Piano del “significante”

L’attenzione dei ragazzi (M e F) si è soffermata soprattutto su aspetti dell’oggetto sonoro-musicale non sempre direttamente connessi con la linea melodica orizzontale di volta in volta proposta dal musicista: tempo, ritmo, timbro, matericità, velocità-nervosismo del fraseggio, organicità o senso di incompiutezza, tappeto suggestivo-armonico, inesausti “ daccapo”, effetti di “sala”, ecc.

 

2.

Piano del “significato”

Singolarmente, un medesimo elemento “sintattico” ha spesso sortito effetti interpretativi sensibilmente diversi, se non addirittura inconciliabili:

 

-         tranquillità/solitudine;

-         incubo, ansia VS divertimento, comicità;

-         tensione VS soddisfazione;

-         stanchezza VS allegria.

 

3.

Considerazioni sociolinguistico-culturali:

 

a)      non c’è proporzione, per quantità di parole utilizzate e qualità delle espressioni, fra gli alunni linguisticamente-culturalmente più “provveduti” e quelli in qualche modo “deprivati”;

b)      nei secondi: “letture” brevi, di solito costituite da un solo termine (per lo più semplicemente selezionato tra quelli suggeriti dalla stessa griglia di “aiuto”), ripetitive (“avventura, viaggio”), poco originali;

c)      nei secondi: “scarsa pertinenza”;

d)      nei secondi: parecchi Nulla;

e)      nei primi: evidente “compattezza” interpretativa.

 

 

E potrebbe risultare molto interessante elaborare ulteriormente questo genere di materiali alla luce di quanto scrive Georges Mounin (Guida alla linguistica, Feltrinelli, 1971, p. 64), con palese riferimento alla nota “ipotesi Sapir-Whorf”:

 

“[…] ogni lingua corrisponde ad una riorganizzazione […] dei dati dell’esperienza […] la prima articolazione [più o meno, il livello delle parole] di ogni lingua è precisamente il modo in cui si analizza, si ordina e si classifica l’esperienza comune a tutti i membri di una comunità linguistica determinata. [..] la lingua è come un prisma attraverso cui chi ne fa uso è condannato a vedere il mondo; […] la nostra visione […] è determinata, predeterminata, persino, dalla lingua che parliamo. […] si può dire che ciò a cui non sappiamo dare un nome, non esiste per noi in modo distinto.”

 

 

 

7.  Un’obiezione en passant

   

Domanda: E chi ha mai stabilito che la musica deve necessariamente comunicare, raccontare, descrivere, esprimere qualcosa “fuori da se stessa” (più avanti si dirà: estroversivamente)? Quando non lo fa, c’è chi ne è perfettamente soddisfatto, neppure immaginando che le cose debbano o possano andare diversamente da così (si vedano, ad esempio, i “valori” presi in considerazione dal be bop).

Risposta: D’accordo. Ma il fatto è che, coltivando o sviluppando una visione “narrativa” della musica (come composizione, esecuzione, improvvisazione), sarà certamente possibile guadagnare parecchio, tanto sul versante dell’ascolto quanto su quello della produzione (proprio grazie ad un diverso modo di rapportarsi con la realtà musicale).

È una strategia che “paga”…

 

 

 

8.  Elementi per una “grammatica narrativa” della chitarra

   

8. 1 

Il tema

   

“Melodia/racconto emergente” è senz’altro il tema, per lo più corrispondente al testo di un song, indifferentemente narrativo o descrittivo, espositivo-riflessivo o lirico-sentimentale.

“A volte anche la conoscenza del testo di una canzone (quando c’è) ti aiuta nel momento creativo in cui devi raccontare una storia” (F. Cerri, in A. Ongarello, La chitarra… alla Cerri, Zanibon, 1991, p. 62).

Anche J. Hall: “Se a monte di un song c’è un testo, è importante conoscerlo”.

Al livello del tema si possono osservare delle strutture narrative e un “fare da racconto” (B. Forman: approccio tematico al solo).

 

 

 

8. 2

La “nostalgia” del tema

   

“Se non si torna mai al ‘nocciolo’ (e lo si deve fare: funzione del leitmotiv) si perde il ‘filo’ del discorso”, sentiamo normalmente dire.

Suonando per dei consumatori di musica non troppo alfabetizzati sul piano di una grammatica dell’improvvisazione sufficientemente sofisticata, più di una volta può capitare che qualcuno di loro ci chieda di “rientrare” al più presto da un solo via via più remoto dal preciso tema iniziale di quel determinato song, “cantandone” nuovamente, se possibile, almeno un paio di rassicuranti passaggi (cfr., sotto, 31., Stern, What I meant to say).

In effetti, troppo spesso il concetto di improvvisazione è stato “confuso” con quello di “variazione” (come modificazione di un tema musicale di base attraverso procedimenti ritmici, melodici, timbrici, metrici o armonici, mantenendone tuttavia riconoscibile la fisionomia originale, o successione di brani musicali elaborati su un tema comune), nel senso di “addobbo”, o “fioritura” tout court, di una certa melodia di partenza, senza mai far dimenticare quest’ultima, anzi lasciandola costantemente riemergere tra un “ornamento” (suono, gruppo di suoni o effetto sonoro introdotto in una melodia a scopo espressivo od ornamentale) e l’altro.

Sappiamo bene, però, che improvvisare “ad un certo livello” consiste nel saper efficacemente costruire delle melodie alternative che possano “competere [da cum-petere: “volare, tendere insieme, con pari dignità, allo stesso titolo”] in bellezza” con il vero e proprio tema (di fronte al quale “l’assolo si giustifica se riesce a competere in bellezza con la melodia”, G. Tommaso), senza dovervi necessariamente tornare.

Dunque, le cose stanno diversamente da come il nostro romantico utente preferirebbe, almeno per chi è abituato pensare all’improvvisazione come ad una produzione estemporanea di temi letteralmente alternativi, in quanto racconti autonomi, ipersegni dotati di una propria ed urgente interna logica di sviluppo, oramai affrancata dalle linee melodiche di partenza.

A mano a mano che procede, sempre più il racconto impone i propri aut-aut al narratore.

Maria Corti parla di una “volontà dell’opera” (Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, 1976, pp. 121-23), quando afferma che, presso molti scrittori,

   

è la stessa funzione costruttiva in atto a motivare le trasformazioni, come dire che l’opera stessa in fieri detta le sue leggi, impone in certo qual modo la propria volontà all’autore. […] l’iniziale libertà dello scrittore di fronte all’ideazione di un’opera è destinata a calare, a incontrare limiti man mano che la fisionomia dell’opera si delinea concretamente, e quindi si impone all’autore. […] man mano che il poeta seleziona temi, motivi, immagini, ritmi, metro, le sue scelte hanno sempre minori possibilità alternative, sinché alla fine la struttura risulta ferrea […] con lo svilupparsi del processo costruttivo calano le possibilità di alternative.

   

Tutto ciò sembra calare a pennello sui nostri temi musicali e sulle relative improvvisazioni.

Occorre però (come già si è detto, ma val la pena di ripeterlo) che queste ultime possano amb-ire alla medesima bellezza, musicalità (si pensi ad alcuni soli indiscutibilmente cantabili e popolarissimi di un Carlos Santana: Black magic woman, Samba pa ti, Oye como va, Europa, ecc.) e, se vogliamo, capacità narrativa del tema scritto e conosciuto, fino a che l’ascoltatore più comune tranquillamente non se lo scordi.

È necessario saper rinunciare alla “Musica”.

E non è facile.

   

 

8. 3

Cantabilità di un racconto

   

I bei temi cantabili (le loro linee melodiche) sono molto prossimi all’approccio narrativo di cui si sta parlando.

Innanzitutto, corrispondono spesso a dei song, e quindi nascono già a ridosso di un testo verbale, cioè di una vera e propria “storia” raccontata, della quale non di rado finiscono per imitare movenze dinamiche, prosodiche, metriche, agogiche, timbriche, ritmiche, ornamentali e struttura/e (divisione, pause, parti/sequenze, loro relazioni).

Anche per questo, cantus non facit saltus. I bei temi (solitamente “popolari”, ma non sempre e non necessariamente) risultano per lo più facilmente cantabili, e di rado prospettano salti di esagerata difficoltà o imbarazzante virtuosismo. Si muovono invece sondando funzionalmente le opportunità offerte dagli spazi più prossimi, come farebbe ogni buon “mercante di sogni” (come il capitano Marcel in un recente romanzo di B. Larsson) che “esponga”, con l’imperturbabile e pacata disinvoltura del grande incantatore, le proprie meraviglie.

Ciò consente a chiunque di poterli fischiettare o cantare senza per questo doverne conoscere a menadito la partitura.

Come appare introversiva (vedi, sotto, 8.11) e sterile, al confronto, la ben più diffusa e indubbiamente autoritaria ideologia secondo cui il godimento estetico dovrebbe passare solo secondariamente attraverso le orecchie, il cuore e il corpo, essendo al contrario gli occhi e la pagina graffita i privilegiati veicoli dell’ascolto

Non è forse vero che anche i più grandi artisti invitano a cantare temi e soli assieme al musicista che man mano li va eseguendo?

È un “metodo” per cercare di accedere direttamente allo spirito stesso di quei messaggi, per comprenderne e “assimilarne” le relative idee “musicali”, a prescindere dalla loro notazione pentagrammatica o realizzazione tecnica sullo strumento, cioè dal meccanico esercizio di puri schemi o pattern che, lungi dal rivelarsi utili, sistematicamente finiscono per trasformarsi, con l’andar del tempo e lo sclerotizzarsi delle abitudini, in autentici handicap.

   

A parte i “salti”, anche la velocità non sembra affatto amica della cantabilità, e a quest’ultima non si avvicina certo un Joe Pass quando sentenzia che per “suonare veloce” è indispensabile saper “pensare velocemente”.

Neppure potrebbe avere troppa fortuna un “sentire veloce”, a meno che non si voglia andare a rispolverare la vecchia solfa dell’“attimo fuggente”, per il quale potrebbe bastare anche una sola, lenta e lunghissima nota.

   

 

8. 4

La regola “Boneschi-Cerri”

   

 Schemi no; mi è rimasta impressa una regola (mi venne suggerita da Giampiero Boneschi) secondo la quale quando si inizia una frase (ascendente o discendente che sia) non si deve tornare indietro” (F. Cerri, in A. Ongarello, La chitarra… alla Cerri, Zanibon, 1991, p. 61).

“Cerri usa una particolare cura […] a svolgere le frasi, ascendenti o discendenti, completamente, evitando bruschi cambi di direzione fintantoché la frase non sia completata” (A. Ongarello, La chitarra… alla Cerri, Zanibon, 1991, p. 3).

   

 

8. 5

L’andamento “epiciclico” delle linee melodiche

 

 

Secondo B. Forman,

 

a)      nell’improvvisazione, l’aspetto ritmico/melodico è più importante di quello armonico,

b)      e si tratta di costruire delle “linee” che connettano gli intervalli tra le note degli accordi,

c)      creando tensione e distensione (senso di moto e risoluzione).

 

Principi fondamentali per una grammatica narrativa” della chitarra.

 

Soprattutto lo è il secondo, in linea con quanto sopra si diceva, citando liberamente Linneo, riguardo al fatto che la cantabilità non facit saltus, ovvero non ama le forti discontinuità, ma si costruisce con naturalezza, cautamente sperimentando le immediate circostanze del punto da cui ci si muove.

 

Circa il terzo punto, il quale integra ciò che si è detto in 8.4, la fase ascendente (domanda) e quella discendente (risposta) [cfr., nei worksong, il procedimento call and response] “mimano”, prese assieme, l’andamento di ogni significativa ed espressiva “catena parlata” che abbia la consistenza testuale di un periodo di senso compiuto.

Solo che tutto ciò non va inteso alla lettera.

Nella più comune pratica musicale occidentale, infatti, non accade mai di imbattersi in linee melodiche che vadano su e giù esattamente come potrebbe fare una qualunque sirena. Possiamo trovare qualcosa del genere solo frequentando con una certa regolarità alcuni autori di musica seria novecentesca (cfr. Armando Gentilucci, Guida all’ascolto della musica contemporanea, Feltrinelli, 1969 e, dello stesso autore, Introduzione alla musica elettronica, Feltrinelli, 1972).

La linea ascendente e quella discendente costituiscono dunque un puro, semplice e approssimativo espediente o modello teorico che neppure la più quotidiana e pedestre prassi verbale realizza, riflette o rispetta.

Al contrario, tanto la comunicazione linguistica quanto quella musicale sembrano disegnare lungo ogni immaginaria (o deducibile; cfr., qui sotto, il “decagramma”) e lineare curva melodica, corrispondente a ciascun cosiddetto “periodo di senso compiuto”, una sorta di andamento epiciclico (che sintetizzerei in un’immagine: “due passi avanti e uno indietro”).

Nell'antica astronomia tolemaica, l’“epiciclo” era il circolo descritto da un pianeta attorno ad un punto ideale, a sua volta orbitante intorno alla Terra.

   

                              

 

 

 

 

 

 


 

Allora, stabilito un generale trend ascendente o discendente, il discorso si “iper-struttura”, sulla scorta di scelte “paradigmatiche” (relative cioè al totale delle note disponibili) che conducono le dita dell’esecutore ora un po’ avanti, ora un po’ indietro sulla tastiera (soprattutto nel jazz?), nella misura in cui vengono applicate quelle strategie da “fraseggio stretto” (Bergamaschi), cromatico (Forman: “quando la nota della melodia è nota dell’accordo, imparare a procedere cromaticamente, in senso ascendente o discendente, su un’altra nota dell’accordo medesimo”), cautamente esplorativo di quel più immediato ambito melodico-armonico (Cerri) di cui altrove si è detto (cfr. Per un’ “autodidattica” della composizione e dell’improvvisazione nel jazz).

   

Ad esemplificazione di tutto questo, il seguente tema (le cui prime 4 battute sono soltanto introduttive) presenta con estrema evidenza, quale super-articolazione dell’essenziale parabola melodica (cfr. tabella successiva), un’elaborazione “epiciclica” della quale sarà il caso di indagare, magari approfondendo la questione in un prossimo studio, le più segrete ragioni:

 

 

 

Per ora, limitiamoci ad esaminare le battute 5ª 13ª (cioè, le prime 8 del vero e proprio “tema”), evidenziando unicamente le note in corrispondenza delle quali la melodia pro-gredisce o, al contrario, re-gredisce: otterremo un insolito ma eloquentissimo “decagramma” (ascendente e tensivo fino alla 9ª battuta, discendente e distensivo dalla decima in poi).

   

NOTA BENE: il SI (B) della 9ª misura non sembra costituire un reale pro-gresso nell’andamento della curva melodica, e quindi è da attribuire, molto verisimilmente, alla sola “logica epiciclica”:

 

 

 

10ª

11ª

12ª

13ª

 

 

 

 

           (B)

 

 

 

 

 

 

 

 

A

 

 

 

 

 

 

 

             G 

 

 

 

 

 

 

 

 

F # 

 

F #

F #

 

 

 

 

E

 

 

 

         E

 

 

 

D

 

 

 

 

             D

 

 

C #

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C

 

 

 

 

 

 

 

 

          Bb

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A

 

 

 

 

8. 6

Qualcosa di “personale” da dire…

   

L’importante è che si abbia veramente qualcosa da dire, e che poi lo si sappia anche efficacemente articolare.

Viene in mente l’usata sequenza dell’innamorato che vorrebbe dichiarare chissà quali stupende immagini alla carissima amata, e allora si prepara scrupolosamente tutto un bel discorso, riccamente farcito di elegantissime, ma trite e già mille volte udite, espressioni/effusioni d’appassionato e infinito amore (ancora pattern!).

Quando poi giunge il fatidico momento, tutta la paziente costruzione come niente si disfa, esattamente al modo di un vano castello di carte da gioco, al posto del quale non sorge null’altro.

Imbarazzo e silenzio.

Il “vocabolario del già detto e del già scritto” (per noi, del “già suonato”) non avrebbe mai potuto assicurargli strumenti autentici ed efficaci, se il fine era riuscire ad esprimere ciò che di assolutamente inedito lui provava per lei.

Anche Dante si poneva il problema della novità dei contenuti e lo risolveva nei termini di una radicale novità della forma, della lingua.

Meglio avrebbe fatto il nostro adolescente se avesse lasciato che, giunto il momento, le parole (quelle “giuste”) affluissero da sé e si manifestassero in assoluta naturalezza e credibilità.

Quale avrebbe dovuto essere l’unico repertorio (regole di competenza) a cui riconoscere la più totale considerazione? Quello dei puri elementi minimi portatori di senso (i “monemi”, dicono i linguisti; le “parole”, semplifichiamo noi) e delle più elementari loro regole sintattiche (quelle che da sempre fanno, come dire, parte di noi, quasi naturali protesi della nostra mente e del nostro cuore, e dunque subito disponibili, cioè senza “studio” o applicazione intellettualistica).

Per il resto, avrebbe solo dovuto lasciarsi andare all’ “esecuzione”, la quale è “performance”, concreta messa in atto di un’astratta “competence”, una volta che ci si trovi in situazione, cioè in presenza di ben precisi elementi circostanziali (ambiente, problemi, obiettivi, persone, cose, contesto verbale o non verbale, ecc.): situated knowledge.

Se la destinataria del messaggio fosse stata all’altezza della sua “verità”, avrebbe certo compreso tutto, e ne sarebbe stata oltremodo gratificata. 

Ma il rischio fa paura.

Soltanto se mi amassi, in quel che sono mi trasformerei

   

 

8. 7

Operare in base a un “senso”

   

“Narrazione” come selezione, distribuzione, connessione e assemblaggio del materiale compositivo (note, accordi, timbri, ritmi, durate [contrazioni-dilatazioni temporali, ritardi, zoom, esecuzione “analitica” di determinati passaggi], intensità, silenzi *, ecc.) sulla base di un senso (in quanto “significato” e “direzione”, contenuto narrativo e orientato svolgimento del medesimo).

 

* Un bel tacer non fu mai suonato: si son suonate parecchie cose, ma un bel silenzio mai. È un invito, per chi “suona troppo”, a stare un po’ “zitto”.

   

 

8. 8

Lessìe

 

 

Una composizione più o meno estemporanea (un tema prestabilito, un solo scritto, un’autentica improvvisazione) sono delle vere e proprie lessìe, ovvero scenari, mappe, contesti, situazioni, spazi di osservazione (e “produzione”; Stefani, Bruner) del senso (R. Barthes): quindi, sono anche dei CAMPI (cfr., sotto, 8.10).

   

 

8. 9

Perché tener conto del “lector”, cioè del pubblico?

   

Il particolare modo in cui ogni musicista inevitabilmente (e, forse, non intenzionalmente) tratta il suono verrà in ogni caso interpretato da qualcuno, in qualche maniera.

In quale misura i produttori di musica potrebbero trarre stimolo e idee operativamente utili dall’esperienza d’ascolto di consumatori qualsiasi, anche scarsamente o per nulla alfabetizzati (cfr., in 6, la mia esperienza con dei ragazzini di scuola media)?

In che misura il loro modo di “raccontare” musicalmente potrebbe avvantaggiarsi del contenuto di “letture” condotte sulla scorta di una competenza decisamente “comune” (Stefani, Insegnare la musica, Guaraldi, 1977)?

Che utilizzo fare dei risultati dei due opposti tipi di approccio all’oggetto sonoro-musicale: colto e comune?

Quali i tratti condivisi e quali le più evidenti e/o significative differenze tra le due modalità fruitive?

   

 

8. 10

Melodia VS/& Armonia ? Il CAMPO

   

Pur potendosi riconoscere un carattere di preminenza o priorità alla linea melodica (tema o solo), come “racconto emergente”, appare francamente difficile non ammettere una decisiva sussistenza della trama armonica, per quanto fine e impercettibile, nelle “buone storie”.

La tessitura verticale, in quanto contesto/scenario/fondale, ma soprattutto campo (CD Sarzana 2003, brani 29, 30; cfr. relative letture al par. 9), area spazio-temporale per la manifestazione di fenomeni fisicamente verificabili, in quanto elementi (definibili sulla base delle reciproche relazioni) e forze interagenti e interinfluenti, miranti ad una certa organizzazione dell’ “universo sonoro”, ovvero alla risoluzione di tensioni/problemi mediante processi/dinamismi, riveste in tali casi un ruolo realmente decisivo. E non soltanto nel senso che un buon accompagnamento è “funzionale” al “bel raccontare”.

Un “campo”, è soggetto prevalentemente armonico, ma è possibile (deve essere possibile) intravedervi embrioni di precise relazioni melodiche, tematiche (aggettivi qui del tutto sinonimi). In tal senso, esso non è scenario neutro ed imparziale, per quanto formalmente corretto, bensì vera e propria struttura “emotivo-orientativa”, intensamente “suggestiva” e partecipe, colma di “consapevolezza” e determinazione, per alcuni aspetti persino “chiusa”.

Il “campo”, dunque, non è costituito, ad esempio nella musica, da puro e semplice materiale d’accompagnamento, e non sono sufficienti a definirlo la posticcia compresenza di più elementi, ovvero una loro indifferente giustapposizione.

In un “campo” i “dati” devono vivamente entrare in un rapporto tensivo/distensivo tale da creare tutta l’energia necessaria allo scoccare di una scintilla qualsiasi.

Diversamente, non vi sarebbe “storia”, non scatterebbe alcunché, di reale o di fantastico. Esattamente come nella sala d’attesa di un dentista, dove ognuno si limita a sfogliare macchinalmente una rivista o a gettare un’occhiata distratta fuori dalla finestra, totalmente ignaro degli altri.

Il “campo” è invece un contesto fortemente significativo e “agente”, nel quale persino dei segni o dettagli altrove di scarso senso o pregio possono “magicamente” caricarsi di valenze inusitate (cfr., in 9, la lettura di 29. / 30.).

Si tratta, evidentemente, di una nozione che, non solo a causa della sua stessa vocazione e natura fortemente interdisciplinare, bensì soprattutto grazie alla quasi naturale e immediata trasferibilità (ad esempio, all’interno del nostro campo di ricerca) di un’ampia rete di concetti ad essa attinenti, potrebbe motivare, sostenere e giustificare sorprendenti sviluppi tanto sul versante cognitivo quanto su quello applicativo.

Sarà veramente il caso di tornarci molto presto, anche se per ora una breve scheda che raccolga alcuni tra i più fondamentali contesti linguistici e/o cognitivi in cui il concetto in questione appare può essere sufficiente a integrare in qualche modo il precedente discorso.

 

 

Bullock-Stallybrass, Il dizionario del sapere moderno, Mondadori, 1981

 

Pag. 88:

“I sistemi considerati in fisica consistono spesso di particelle che si muovono sotto l’azione delle rispettive forze di attrazione o repulsione […]. Spesso l’analisi di tali sistemi può essere semplificata se alcune delle particelle vengono considerate come sorgente di un’influenza – un campo – che esiste attraverso lo spazio anche quando non vi sono altre particelle per sentirla. Un campo è pertanto fondamentalmente […] il portatore di interazioni fra particelle […].”

 

Pag. 89:

“L’esistenza in una certa regione dello spazio, di un campo elettromagnetico è indicata da forze che si esercitano su cariche, correnti elettriche e magneti di prova.”

 

Pag. 89:

“il vocabolario di una lingua [..] è organizzato in aree o campi, al cui interno le varie parole sono in relazione reciproca e si definiscono a vicenda in vario modo. […] parole che indicano colori: il significato preciso di una parola di questo genere può essere capito solamente mettendola in relazione con gli altri termini che cooperano con essa a demarcare e articolare lo spettro dei colori.”

 

Pag. 285:

Gestalt. […] una configurazione, un modello o un tutto organizzato con qualità diverse da quelle delle sue componenti considerate separatamente, per esempio una melodia, perché la sua qualità non è intrinseca a una particolare nota in quanto tale. Queste qualità globali […] un movimento percepito che non corrispondeva né a un reale movimento fisico né a elementari eventi stimolo, ma a diversi eventi stimolo in interazione […] la natura delle parti è determinata dal tutto, al quale è secondaria. Ogni percezione viene sperimentata nella sua totalità, non come giustapposizione di parti elementari.”

   

La Nuova Enciclopedia Universale Garzanti, 1982

 

Campo

Regione di spazio in cui a ciascun punto corrisponde un valore preciso di grandezza fisica: può essere scalare, vettoriale o tensoriale. […] Le caratteristiche dei campi si presentano come linee di forza tangenti alla direzione della forza agente in ciascun punto e tanto più fitte quanto maggiore è l’intensità del campo: la linea di forza indica la traiettoria che seguirebbe un elemento (unità di massa o di carica) soggetto all’azione del campo, qualora venisse posto immobile in un punto.

   

Dizionario Interattivo Garzanti, 2000

 

Campo di battaglia / (fig.) luogo in cui regna la confusione, il disordine / scendere in campo, venire a battaglia / (fig.) aprire una discussione, una polemica / rimanere padrone del campo / aver campo libero / (fig.) avere libertà d'azione / a tutto campo, nel linguaggio sportivo, si dice di tattica di gioco che spazia su tutto il campo, senza risparmio di energie da parte dei giocatori / (fig.) di ricerca, attività condotta a vastissimo raggio, senza limitazioni prestabilite / in pittura e in scultura, lo sfondo, lo spazio entro il quale comporre gli elementi della rappresentazione / zona di spazio in ogni punto della quale è definita una certa grandezza fisica: campo magnetico, elettrico, gravitazionale / campo visivo, tratto di orizzonte che si abbraccia con l'occhio immobile o con uno strumento ottico / parte della scena che entra nell'angolo di presa dell'obiettivo: campo lungo, medio, corto, a seconda della sua ampiezza / in un data base informatico, ogni area, di dimensione predefinita dall'utente, in cui saranno registrate le singole informazioni che compongono il record.

 

 

Omnia 2000 Gold

 

FISICA

Campo è la regione di spazio in cui si manifestano fenomeni fisici, in particolare dove si manifesta l'azione di forze.

Tra i campi di forze hanno particolare interesse i campi elettrostatici, […], i campi elettromagnetici, […], i campi gravitazionali […].

Altri campi particolari definiti in fisica sono il campo acustico, o campo sonoro, regione di spazio in cui viene generata e si propaga energia sonora. […]. Un campo aerodinamico è una regione di spazio caratterizzata dai valori di velocità, accelerazione, pressione, temperatura, densità della massa fluida che la occupa.

OTTICA

Campo visivo è lo spazio che l'occhio riesce a percepire da un punto determinato. Analogamente, per uno strumento ottico, per esempio un cannocchiale, angolo di campo è l'angolo solido entro il quale si possono osservare oggetti attraverso il cannocchiale.

PSICOLOGIA

In psicologia, il concetto di campo è stato in particolare sviluppato dagli autori legati alla scuola della Gestalt. In linea di massima può dirsi che il campo psicologico viene considerato come un campo di forze interagenti, attraverso cui vengono organizzati i dati psicologici, che si influenzano a vicenda. L'individuo viene inoltre considerato come un tutt'uno con il campo, con cui è in relazione.

 

 

8. 11

Semiosi introversiva VS estroversiva

   

Soli boppistici (Escoudé, Farlow, Lagrene, Pass, Wes, Cifarelli, Remler):

a)      in che cosa differiscono? In precisione, disinvoltura, eleganza, levigatezza, competenza, capacità costruttive, ecc.;

b)      che cos’hanno in comune? L’ introversività.

 

“Con un’esecuzione lenta si è costretti a una scelta di note centellinate, tra le tante possibili, […] man mano che il numero delle note diminuisce, aumenta il dovere di “pensare” quando si suona. Joe Pass […] dice che per suonare velocemente bisogna saper “pensare” velocemente; questo è vero solo in parte, poiché è noto quanto l’acquisizione di una buona tecnica, e lo svolgimento di numerosi studi, possano portare alla creazione e alla memorizzazione di svariate frasi proprie, che potrebbero essere suonate anche senza riflettere, per abitudine (F. Mariani, Trattato di chitarra jazz, 1988, p. 174).

 

Gli stili di “pensiero” a ciò relativi sono esattamente due:

a)      il primo, più propriamente, rigorosamente, rigidamente “musicale” (sotto, lo si definirà introversivo), ha per sua materia elementi, oggetti e parametri di natura strettamente musicale;

b)      il secondo appare invece latamente, trasversalmente linguistico ed extramusicale (estroversivo), e dunque, narrativo-poetico-descrittivo.

Da musicisti, tanto Pass quanto Mariani fanno visibilmente riferimento al primo, trascurando (o dimostrando di ignorare) le straordinarie potenzialità del secondo.

A parte questo, credo che non moltissimi si dichiarerebbero d’accordo circa il fatto che una buona storia possa (o debba necessariamente) venire al mondo “il più rapidamente possibile”.

 

La dicotomia semiosi introversa VS estroversa illustrata dal semiologo musicale Gino Stefani (cfr. Insegnare la musica, Guaraldi, 1977, p. 34. I due concetti di introversive ed estroversive semiosis, sono stati proposti da R. Jakobson: cfr. AA.VV., Linguaggi nella società e nella tecnica, Milano, Ed. di Comunità, 1970, p.12),

 

“[…] il CC [Codice Colto] tende a ridurre la musica a un codice monoplanare, limitato al piano dell’espressione, mentre il CP [Codice Popolare] fa della musica un codice biplanare correlante espressioni e contenuti. […] E nella misura in cui semantizza, il CC sviluppa una semiosi ‘introversa’, mentre quella del CP è ‘estroversa’ ”

 

vale (e agisce) tanto al livello dei fruitori di musica quanto, e soprattutto, a quello degli stessi produttori, nella misura in cui, inevitabilmente, questi ultimi tendono a costruirsi una certa immagine di sé, ovvero a “leggere” le proprie stesse performance in modo introverso piuttosto che estroverso: vizio “professionale” assai ricorrente presso la maggior parte dei musicisti, estremamente avvezzi a considerarsi dei privilegiati adepti di una specie eletta.

Su questo aspetto si potrebbero condurre degli ascolti guidati mediante griglie strutturate (a base di “indicatori” più o meno sofisticati), anche al fine di rendere chiaro, attraverso una comune presa di coscienza del fenomeno, come il fatto di parlare di possibilità narrative (e con ciò anche descrittive, espressive e riflessive) della musica non sia una peregrina e improduttiva pretesa dello scrivente.

Quella che segue potrebbe essere una discreta idea di partenza per la costruzione di una tale griglia d’ascolto analitico, di studio e di classificazione dei “dati” dell’esperienza musicale:

 

 

                     Brani

    

 

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Aspetti strettamente tecnico-musicali (introversivi)

“Lavoro” sulle strutture formali (scale, modi,

figure ritmiche, pattern, ecc.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ornamenti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tecnicismi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Virtuosismi”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aspetti linguistico-comunicativi non strettamente musicali (estroversivi) 

Attenzione

alla costruzione

del “discorso”,

del “racconto”, ecc.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Determinazione,

decisione,

consapevolezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eleganza

espositiva

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Carattere

“astratto”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Descrittività

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Narratività

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riflessività

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Razionalità

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Emotività

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Sentimento”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aspetti “soprasegmentali(prosodico-metrici, ritmici, timbrici, dinamici, agogici; pause, spazialità)

Chiarezza

del “discorso”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tensione VS

distensione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Effetti di

“stanza”,

“sala”, room,

“ambiente”

(piccolo, medio, grande)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lavoro sui timbri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Velocità

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lentezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Purezza, precisione, esattezza,

“pulizia”,

levigatezza

dei suoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio concesso al “silenzio”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una simile impostazione del problema da una parte consentirebbe di ben classificare/sistemare la nostra generale esperienza di fruitori di musica su due precisi e capienti cassettoni; dall’altra, permetterebbe di organizzare con maggiore coerenza il nostro stesso lavoro di produttori, favorendo una migliore individuazione di quegli obiettivi che vorremmo realmente perseguire.

   

Un ulteriore chiarimento.

Ascoltando un chitarrista qualsiasi, se ne possono ammirare due tipi di talento, abilità, “virtuosismo”, solitamente uno in alternativa all’altro, e solo nei casi migliori entrambi equilibratamente  compresenti (ma allora è l’espressività che la vince, sottomettendo a sé tutto ciò che è capriccioso, vacuo e gratuito): uno tecnico, l’altro comunicativo/espressivo.

Questa duplice possibilità va ovviamente valutata alla luce di una semplice premessa: il più ricco approccio possibile al dato musicale passa necessariamente attraverso il mondo dei significati, anche e soprattutto se questi ultimi possono essere prodotti, negoziati, istituiti, riconosciuti e/o coscientizzati al livello di quella competenza comune di cui parla ad esempio Gino Stefani (Insegnare la musica, Guaraldi, 1977), mediante pratiche di semiosi di base, e dunque non arrestandosi alla sterile “decodifica” dell’oggetto sonoro-musicale consentita dal puro esercizio di codici colti, di cui sembrano essere a conoscenza unicamente il musicista compositore/esecutore o il critico, che del manufatto tendono a vedere, godere e “oggettivamente” valutare appena gli aspetti strettamente tecnici e morfologico-sintattici (semiosi introversa).

   

 

8. 12

Livelli di codifica delle componenti introversiva ed estroversiva

   

Elevata è la codifica di tutti quegli elementi che potremmo definire propri del pensiero musicale introversivo (sicura “legalità” del pattern  VS  “civico” orrore della “trasgressione”).

Al contrario, bassa è la codifica di tutti quegli aspetti sopra definiti “estroversivi”, e dunque minore anche la necessità di alfabetizzazione al loro riguardo, con evidente possibilità di una più agevole abbordabilità degli stessi da parte del più comune consumatore di musica.

Codifica flou. Linguaggio “sfumato”. Fuzzy concepts (v. Eco, Trattato di semiotica generale). “Galassie e espressive” e “nebulose di contenuto” (Eco, Trattato). Largo spazio all’approssimazione. Informalità. Elevata tolleranza per il “diverso”

 

 

 

8. 13

I parametri “superstiti”

   

Ascoltando con trasporto un certo tema o un solo piuttosto “narrativo” (8. Children's game, 19. Something to remind you, 20. Don’t forget), e quindi mentre si sta “cantando con lui”, può accadere che improvvisamente se ne perdano di vista le coordinate introversive, cioè tanto la struttura pentagrammatica melodico-armonica (non sappiamo più, cioè, se quella certa nota sia una III o una VII, ecc., nella generale o locale economia armonico-modale-accordale del particolare passaggio), quanto quella tecnico-esecutiva, dal momento che se ne sta assaporando l’estroverso potere del saper comunicare una “bella storia”.

Come dire: meglio mangiare la macedonia che star lì a calcolare, come invece accadeva a un noto matematico del secolo scorso, il volume dei cubetti e pezzettini di frutta!

Ad ulteriore rinforzo di ciò, i parametri “superstiti” (di cui è ancora possibile attestare una decisa percezione/accettazione/decodifica/valutazione) sono quelli meno intimamente legati alla “Musica” in quanto specifica disciplina, bensì propri anche a svariate altre forme di espressione-comunicazione. Primo fra queste, il linguaggio verbale: movenze (dinamiche, prosodiche, agogiche, timbriche, metrico-ritmiche, ornamentali, spaziali) e struttura non strettamente musicale, ma “architettonico-generale” (pause, divisione, parti/sequenze, loro relazioni).

Il fatto che una determinata linea melodica riesca a tenderci con successo scherzi del genere può voler dire una sola cosa: chi suona sta “parlando” e, molto probabilmente, “raccontando” qualcosa (il che non esclude, come si sa, momenti lirico-descrittivi e riflessivi). Anche lui, quasi rapito (come noi fruitori, del resto) in una sorta di trance-fascinazione-seduzione “narrativa”, ampiamente inconsapevole riguardo a quanto gli sta accadendo, o come surrealisticamemte “manovrato” da Qualcosa che via via si appresta a scoprire nel momento stesso in cui Lo “materializza” suonando, necessariamente “trascende scale e arpeggi nella loro forma di base” (J. Diorio, A Guitar Approach To Rhythm Changes, Intra’s Edizioni Musicali, Milano, 1993, p. 2), e noi non li “sentiamo” più, a tutto vantaggio della “vera esperienza musicale”, che non è soltanto trito esercizio di lessico e sintassi, ma narrazione, espressione, comunicazione.

 

 

8. 14

La formatività

 

 

Utilissima pare, ad autorevole e filosofico puntello dell’intero discorso, la nozione pareysoniana di “formatività”, per cui il “fare” è davvero un “formare” unicamente quando “nel corso stesso dell’operazione inventa il modus operandi, e definisce la regola dell’opera mentre la fa, e concepisce eseguendo, e progetta nell’atto stesso che realizza. Formare, dunque, significa ‘fare’, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare” (L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Sansoni, Firenze, 1974, p. 59).

Quanti musicisti e, ancor più, quanti chitarristi schiavizzati da sigle accordali, impianti armonici (e quindi dai corrispondenti chords dalla “presa” rigida, mnemonica, automatica e manualistica), stilemi blues, rock o jazz, pattern e modalità, potrebbero veramente dichiararsi capaci di performance in tal senso inventive, creative, ovvero di confrontarsi con la “formatività”?

Potrebbe una visione narrativa della composizione e/o dell’improvvisazione contribuire a svincolare il fare/l’ascoltare musica dalle secche dell’ introversione, ovvero di una narcisistica autocontemplazione tecnologica e, insieme a ciò, della pura competizione virtuosistica?

Scrivevo qualche tempo fa (cfr. Per un’ “autodidattica” della composizione e dell’improvvisazione nel jazz):

 

“[…] affinché il rapporto con l’audience risulti assolutamente trasparente, verranno messe da parte tutte quelle preoccupazioni estrinseche che nulla hanno a che vedere con la reale comunicazione musicale (gara-certamen, vanitosa ostentazione della propria tecnica, narcisistica esibizione di sé, ecc.). […] sfuggire tanto ai vuoti pattern, quanto, e soprattutto, a quei fraseggi virtuosi ed insignificanti, abbaglianti ma indifferenti di cui è ricolmo il vocabolario dei “dimostratori”: non c’è creatività, non c’è sentimento, non c’è verità.”

 

Se infatti, dato un certo tema, non riusciamo a percepirvi che polychords armonizzati per quarte, o superlocrie articolate in rapide terzine su “sostituzioni di tritono” e via dicendo, allora tutto il bel discorso che stiamo tentando miseramente boccheggia, vuoi per nostro peccato (talora è proprio e soltanto nell’ascoltatore quel vizio di introversive semiosis che preclude un approccio più ricco e gratificante nei riguardi della musica), vuoi per colpa di un compositore/esecutore irrimediabilmente frigido.

 

 

8. 15

Narrazione: fraseggio o formazione del suono?

 

 

I chitarristi narrativi sembrano maggiormente sensibili alla “formazione del suono” e ad altri valori (cfr., sopra, i “parametri superstiti”) a carattere piuttosto “acustico”- sonoro, ovvero più immediatamente legati all’aspetto squisitamente materico-oggettuale, e insieme soggettivo-espressivo-personale, del fare musica (per cui l’esecutore è parte integrante/inter-attiva dello scenario, l’enunciatore è incluso nell’enunciato).

Al contrario, i chitarristi non narrativi paiono maggiormente orientati nel senso di un “plectrum sound” (cfr., in questo stesso sito, il mio primo saggio, La "formazione del suono" nella chitarra jazz), attribuendo dunque notevole priorità ad un fraseggio introversivamente inteso, come discorso “musicale”, strettamente, tecnicamente, rigidamente “musicale”.

 

Scrive Berendt, ne Il libro del jazz (pp. 130, 131, 361, 363):

 

Nella formazione non standardizzata del suono dei grandi improvvisatori di jazz si riflette in modo immediato e diretto lo stesso musicista. […] un esperto di jazz dopo due o tre suoni riesce a indovinare chi suona in un determinato brano. […] Il jazz si differenzia dalla musica europea per una formazione del suono e per un modo di fraseggiare in cui si riflette l’individualità del musicista di jazz che sta suonando. […] la formazione jazzistica del suono e il fraseggio jazzistico sono antitetici. […] Laddove la formazione jazzistica del suono è maggiormente pronunciata […] il fraseggio del jazz cessa completamente di esistere. […] laddove il fraseggio jazzistico è particolarmente pronunciato – per esempio negli a solo per sassofono tenore di Stan Getz […] o nelle linee di sassofono contralto di Lee Konitz – la formazione jazzistica del suono sembra abolita in larga misura. Il fraseggio detta in modo così inequivocabile l’accadere musicale, che non sembra necessario formare suoni che abbiano un senso espressivo al di fuori del flusso della frase musicale. 

 

In particolare, il “fraseggio” della musica colta europea, che naturalmente si differenzia profondamente da quello moderno e jazzistico, sembra riservare scarsissima attenta valutazione alla “formazione del suono”. I chitarristi-esecutori di composizioni “serie” appaiono solitamente “frigidi”: dalle loro corde non sortiscono che note semplicemente corrispondenti alle indicazioni dettate dal pentagramma. È necessario ascendere ai migliori per poter godere di una qualche attenzione nei riguardi di tutti gli altri parametri “performativi” (timbro, formazione del suono, dinamiche, agogica interpretativa, silenzi, anticipi/ritardi, strategie espressive, ecc.).

 

 

8. 16

Gli “effetti” di spazialità

   

Tutt’altro che secondaria, in un’ottica narrativo-descritiva, la funzione degli “effetti” di eco, delay, riverbero e simili.

Sarebbe bene evitare di considerarli puri e semplici “abbellimenti” del sound a “suono ormai deciso”, ovvero meschine manipolazioni del medesimo al solo fine di renderlo “più gradevole”.

Fanno, al contrario, parte della com-posizione a tutti gli effetti, e fin dall’inizio, almeno nella stessa misura in cui vi ricoprono un ruolo indiscutibilmente essenziale le scelte timbriche fondamentali o altri parametri (quelli “superstiti”) che sopra sono stati intesi quali variabili della “formazione del suono”, ovvero sue determinazioni che potremmo più sinteticamente definire mediante il concetto fotografico di “grana”.

Tutto questo è talmente vero che il “fruitore” di un  brano musicale, soprattutto quello musicalmente meno alfabetizzato (e dunque maggiormente orientato verso una lettura estroversiva del manufatto sonoro), sembra tenere estremamente conto di cose come, ad esempio, una “small” o medium” room, risultandone nell’ascolto fortemente condizionato.

Ma ciò che appare assolutamente ovvio a qualsiasi buon tecnico di sala di registrazione, per il quale gli effetti non sono mai dei posticci “orpelli”, potrebbe non risultare affatto evidente per il comune ascoltatore o, peggio ancora, per quel musicista che, spesso truffato dalla stessa sua competenza tecnico-introversiva, non sa cogliere nell’oggetto sonoro-musicale che gli ornamenti di facciata, le decorazioni “circensi”.

Gli “effetti” di spazialità risultano del tutto assenti in Farlow [Cd Sarzana 2003, 12] (suono “vicinissimo”, assoluta intimità, tête a tête, corpo a corpo, nessun alone di “stanza”, small room, e forse neppure quella); piuttosto avvertibili in Ritenour [CD Sarzana 2003, 25, 26]: vaste spazialità, eleganti rarefazioni, aperte e assolate spiagge californiane, ecc.

In Cifarelli [CD Sarzana 2003, 7]: effetto “locale” (cfr., in 6, le “letture” dei ragazzi; in 9, la mia), “medium room”.

 

 

 

9. Applicazioni della “grammatica narrativa”: ascolto ragionato di alcuni brani dal “CD Sarzana 2003”

   

È davvero sorprendente la “facilità”, concretezza, coerenza, lucidità e pertinenza non solo delle analisi, ma anche delle performance (creative o esecutive), quando queste sorgono non estemporanee e peregrine, ma sulla scorta di un impianto teorico ben preciso e articolato quale può esserlo una “grammatica narrativa” del tipo appena delineato, sia pure a grandi linee.

   

3.  Bergamaschi, Sunny

Ho scritto questo pezzo per il CD Sunny (da me inciso nel 1995 assieme al percussionista Gaspare Bonafede), dove molti brani vanno decisamente “letti” come veri e propri racconti, a cominciare dalla stessa composizione che dà il titolo all’album: il vario ma regolare susseguirsi di fasi tensive e distensive, nel costante gioco dialettico (CAMPO) tramato tra chitarre e “oggettistica” meravigliosamente inedita, vi delinea le alterne sequenze di una storia che drammaticamente si dipana, si “snoda” (cioè si “toglie dai problemi”, nel senso bruneriano; cfr., sopra, par. 4) per oltre sette minuti.

Per comprenderla appieno, attimo dopo attimo, può essere utile quanto osserva Bruner (La cultura dell’educazione, Feltrinelli, 1997, p. 107): “quello che fa girare la storia e la rende degna di essere raccontata è la presenza di una crisi: qualcosa che non quadra”.

   

3. / 6. Bergamaschi, Sunny/ Cerri, Nannerl

Un racconto musicale può essere lungo o breve.

   

5. Catherine, Galerie des princes

Sembra davvero che il testo imponga progressivamente all’autore le sue proprie leggi, una sempre più ineludibile logica interna (cfr., sopra, 8.2, M. Corti: “ipersegno”). Dopo un brindisi all’avventura e gettatosi nella “danza”, il chitarrista appare pronto a seguirne ogni non prevista evoluzione, pur manifestando qua e là indecisioni, ritardi o “pentimenti”, com’è lecito accada nel corso di un’autentica improvvisazione (cfr., sopra, 8.14, formatività: “formare facendo”) .

Nel primo chorus emerge in tutta evidenza un eccitato interplay tra la chitarra e il contrabbasso. In alcuni momenti, quest’ultimo sfrutta, sostiene e amplifica a dovere le suggestioni avanzate da Philippe. Pare quasi che l’interlocutore/ascoltatore del racconto chitarristico non possa fare a meno di “intrudersi” lui pure, attivamente, nell’enunciazione, piuttosto che star lì a fungere da puro e semplice accompagnatore funzionale, ovvero passiva “tappezzeria”. Si genera un campo (cfr. 8.10).

Appare chiaro come l’arte del raccontare sia contagiosa, in presenza di un “narratore efficace” (cfr. C. Neri, in “Narrative music” / “narrative guitar”, 5).

Inoltre: influenza del clima, della cultura, della sensibilità nordeuropea, struggente e fiabesca, forse un po’ alla Hans Christian Andersen, seppur velatamente blues (frequentazioni USA di Catherine. Ma: significative differenze tra il “blues” di Philippe e quello di T. Harrel al flicorno), sullo stile della narrazione.

   

7. Cifarelli. Letter to Wes

Semanticamente parlando, un solo come questo mi fa pensare unicamente a circostanze del tipo “musicista che suona alla Wes, in un certo tipo di locale [si rileggano, al paragrafo 6, le letture candidamente offerte in tal senso dai miei ragazzini di III media: “Bar-soft. Due persone che si incontrano. Serata al cabaret. Descrizione di un locale”], con un certo tipo di pubblico, per creare un certo tipo di atmosfera, ecc. ecc.”, senza uscirne fuori. Autentica introversive music.

Chi poi non abbia esperienza di un tale genere di “ambienti” (cfr. il ruolo degli “effetti” di spazialità, in 8.16), ne ricava anche meno: appena qualche vaga impressione (raffinatezza, prestigio, esclusività, sicurezza, fascino, eleganti aromi, ecc.), difficilmente coscientizzabile e discretamente ineffabile per molti.

Quanto ai “silenzi”, quelli di Cifarelli appaiono non poco stylés. Nella “lettera” al Signore dei Pattern, l’educazione “musicale” vince sull’horror vacui.

Proprio nulla a che vedere con l’autentica, profondissima, monastica “taciturnità” di uno Scofield.

   

10. Escoudé, Angel face

Il chitarrista non si concede (e non concede) respiro, “inanellando” (si fa per dire) frase su frase (nessuna, tuttavia, “di senso compiuto”), guidato dall’impulso del momento (che non è necessariamente “improvvisazione” o “creatività”) e come plagiato da tutta una serie di schemi frettolosamente digeriti, nella più sorprendente inconsapevolezza di architetture e racconti.

Quanto siamo distanti dalla pacata, ma intensa, meditazione di un Malaguti o uno Scofield, dove la maggior parte del tempo viene “investita” in perfetti silenzi

Se potessimo tradurre questa performance di Escoudé in un interpretante verbale, ovvero in un testo narrativo, ne sortirebbe una storia schizoide (sfasciume di personalità multiple), incomprensibile, illogica, senza cronologia, senza emozioni o sentimenti che concedano il tempo di viverli, di condividerli, e, ciò ch’è peggio, senza che questo generi nel musicista alcun dramma (almeno in apparenza).

Quanto della sua personalità è possibile leggervi veramente!?

Si avverte, comunque, che l’artista non è “felice”…

   

L’unica vera “idea musicale”, se non altro sotto il profilo introversivo, è quella con cui il solo, in una sospiratissima breve linea discendente da troppo tempo agognata, si chiude smuovendo uno “Yeah!” (non si capisce bene se dalla parte del pubblico o, più probabilmente, da quella del batterista, che sembra raccogliere e prontamente sostenere l’intuizione, in uno scenario, da parte sua sì, di vero, ma ahimè non corrisposto, interplay).

Il solo di Christian non conosce nulla che possa somigliare ad una regola “Boneschi-Cerri” (8.4), e neppure i concetti di tensione/distensione affermati da Bruce Forman (8.5). C’è soltanto molta confusione in questa “scrittura narrativa” tanto simile a un babelico miscuglio di lingue dall’andamento tremendamente inattendibile.

Nessun “periodo di senso compiuto” (8.5) viene iniziato e condotto serenamente a termine: innumerevoli altri, e senza alcun plausibile motivo, incessantemente si cacciano nel discorso, a mo’ di invadenti, effimere e incomprensibili “proposizioni incidentali”, impedendone una qualunque risoluzione, all’infuori di quella determinata, al termine del solo, dal comprensibilissimo stress che tanto l’ascoltatore quanto, verosimilmente, il chitarrista (tradendosi) rivelano.

Interessantissime, a tale riguardo, le “letture” di alcuni ragazzini di III media, innocenti sentenze di condanna: Voglia di dire troppe cose insieme. / Ricerca di qualcosa che non si trova. / Ansia. / Tensione. / Calcio di rigore.

Mia lettura: Apnea (come per Farlow, 11).

 

 

11. Farlow, Straight, no chaser

I soli veloci di Farlow, come quelli di Escoudé, non costruiscono niente, e alla fine non resta che “aria fritta”. Soltanto “cacce”, inseguimenti male amministrati (vi manca soprattutto l’incalzante tensione di un Gibellini, che i crescendo li sa gestire alla grande, nel piacere delle discrete attese e del pacato regal “parlare”).

Come se non bastasse, sortiscono assai spesso un irresistibile effetto comico (certamente non voluto, e tuttavia sperimentato con grande allegria dai miei alunni) nello “strangolamento temporale” di parecchi frammenti agiti sui registri più acuti.

Val proprio la pena di rifarsi le orecchie (ma non solo) con le spaziose, “edificanti”, articolate, generose e logiche architetture di una Remler (“probabilmente l’unica donna a presentarsi con una concreta consistenza tecnica e musicale sulla scena della chitarra jazz”, in L. Viva, Pat Metheny, Franco Muzzio Editore, 1989, p. 28) in Softly, as in morning sunrise (Cd Sarzana 2003, 24)!

   

12. Farlow, You don’t know what love is

Tal, apparentemente a proprio agio là dove è questione di polverizzare la concorrenza in velocità (molteplici inadeguatezze incrinano comunque persino questo genere di sue performance, anche nel già visto solo di Straight, no chaser), si sente come l’albatro di Baudelaire, non appena gli viene concesso del tempo per fermarsi a “pensare”, a “sentire”, a vivere e respirare. Sembra che suoni costantemente in apnea (cfr. G. Bergamaschi, in La “formazione del suono” nella chitarra jazz: “la stessa respirazione va gestita in modo tutt’altro che approssimativo; in ogni caso, per nessuna ragione si deve suonare in apnea”), e spesso anche noi si soffre con lui.

Insomma, ovunque il tema prescelto gli consenta di prendere le cose con un minimo di tranquillità, per poter imbastire un disteso racconto (cosa che neppure con la deliziosa You don’t know what love is gli riesce), l’artista balbetta, nonostante spesso si tratti di soli costruiti a tavolino (cioè “preparati”, ma non vissuti), e quasi pare che zoppichi e inciampi:

   

Com’è intrigato e incapace, questo viaggiatore alato!

Lui, poco fa così bello, com’è brutto e ridicolo.

   

Un paio di passaggi “critici” su cui riflettere, per rendersi conto di come il nostro “eroe” potesse apparire a degli osservatori tradizionali, decisamente “introversivi”:

 

 

“In prima istanza egli è fortemente influenzato da Raney, ma con le sue grandi mani ha ben altre possibilità di Raney che quando suona usa sempre le dita singolarmente. Dopo Tristano e prima di Sonny Rollins forse nessun altro musicista di jazz ha saputo creare linee così interminabili e rinnovantesi spontaneamente sopra le cesure formali dei chorus, periodi, frasi e parti intermedie. Ma non sono le linee astratte di Tristano, ma le linee concrete del classicismo moderno.” (J. E. Berendt, Il libro del jazz, Garzanti, 1968, pp. 273-74)

   

Wes Montgomery su Farlow

 

“[…] non ha il feeling di Kessel ma possiede più drive, che unito alla sua tecnica lo rende piuttosto stimolante. E rispetto alla media dei chitarristi conosce molto meglio gli accordi moderni. Ogni tanto diventa sentimentale […], ma credo che nessuno possa avere tutto; lui ha un sacco di drive ed è così veloce” (in: Maurizio Franco, Wes Montgomery, Musica Jazz, n. 511, p. XXXIX)

 

 

Anche nelle “letture” proposte dai miei alunni risultano comunque valorizzati, più che gli aspetti relativi al piano melodico, il tempo, il ritmo, la velocità, il drive (i “parametri superstiti”, quando ogni coordinata introversiva è andata perduta; cfr., sopra, 8.13): Viaggio frettoloso. / Gente che si rincorre. / Una persona che non sa scegliere. / Un’auto veloce. / Vita di città. / Irrequietezza. / Agitazione. / Movimento. / Ballo. / Allegria. / Allegra festa.

   

17. Malaguti,  Stride and soul

Cauto, sfumato, paziente e sensibile racconto psicologico.

Silenzi, “paesaggi interiori”, frasi appena accennate, pensieri “non confessati”, piacere/dolore del “non detto”, del “non finito”. O meglio: “Una luce intermittente. Il mare di notte. La risacca…” (cfr., sopra, 6).

   

19. Metheny, Something to remind you

Sembra che Pat voglia “parlarci” come si fa tra persone che sanno anche, a turno, “ascoltarsi”: andamento discorsivo-colloquiale, curve melodico-espressive, “epicicli”, pause, lievi pentimenti, struggenti assenze: tutto con estrema naturalezza.

In che misura la lingua “madre” di un musicista può influire sul carattere del suo “fraseggio”?: “Mentre al telefono stavo parlando con Lois Metheny rimasi colpito dalla splendida voce, fu molto strano, in quel momento mi sembrò di sentire il suono della chitarra di Pat” (L. Viva, Pat Metheny, Padova, Franco Muzzio Editore, 1989, p. 90).

   

20. Metheny/Hall, Don’t forget

Si tratta di un unico racconto a due voci, o di una storia articolata in due capitoli, di un delicatissimo dramma in due atti?

Oppure sono in gioco due punti di vista, non del tutto o non sempre congruenti, anche se di sentimento affine?

O infine, si tratta forse di storie differenti che i due chitarristi si raccontano per farsi compagnia, valorizzando adeguatamente dei silenzi che di tanto in tanto “gridano”, sia pure in punta di piedi…

   

Davvero interessanti le profonde differenze stilistiche tra i due nell’articolare ciascuno il proprio racconto (o la propria versione di una medesima storia).

   

Confessione, colloquio intimo, segreto tra padre e figlio, tra amante e amata (due voci, diverse, ma complementari: una maschile, l’altra femminile).

   

Il solo di Pat sembra applicare molto alla lettera la regola “Boneschi-Cerri”, oppure i concetti di tensione/distensione, alla Forman.

Anche il racconto di Hall è come un’onda: va e viene, con “metodo” e regolarità.

Pat gli fa eco, “imitandone” alcune strategie (è proprio un bravo ex-allievo…).

   

Frequenti le pause di meditazione e riflessione, da parte di entrambi.

   

21. Montgomery, Says you

“The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery!” (da una storica affichette pubblicitaria della Gibson).

Assolutamente magistrale!

Tecnico, eppure espressivo.

Introversivo e, nel contempo, estroversivo.

Logico, architettonico e chiaro.

È il Libero Demiurgo di tutta una serie di pattern che un lungo codazzo di successivi chitarristi passivamente imiterà.

È Lui il Master, l’ipse del dixit!!

 

Anche per Wes un paio di passaggi “critici” su cui riflettere, per rendersi conto di come il nostro “eroe” possa apparire a degli “introversivi” e tradizionali osservatori:

 

Tal Farlow su Montgomery

“Ho la sensazione che la musica di Wes Montgomery sia il più logico prolungamento moderno dell’approccio di Christian. Ascoltando Wes provo la stessa sensazione sentita al primo ascolto di Charlie Christian. L’autorità  ritmica del fraseggio di Wes, le sottili implicazioni delle logiche progressioni armoniche, la sua naturale abilità nella costruzione drammatica degli assoli portavano l’ascoltatore a muovere la testa in segno di assenso e a mormorare: Yeah, Wes!” (in Maurizio Franco, Wes Montgomery, Musica Jazz, n. 511, p. XLV; citato da Jazz Magazine, 7/8/1968)

 

Escoudé su Montgomery

“Il suo modo di suonare differisce fondamentalmente da quello dei suoi predecessori sia per la tecnica che per il sound. Egli è stato il primo a usare il pollice […]. Questo ha condizionato non solo la tecnica che ha dovuto mettere a punto, ma anche tutta la sua musica, la sua invenzione musicale. In breve, l’espressione della sua personalità.

Il suo fraseggio è al tempo stesso muscoloso, semplice, diretto e armonicamente ricco e sottile. Ci vedo la confluenza di due correnti: all’inizio la musica di Montgomery è molto nera, solidamente radicata nel blues. Ma vi si coglie anche una predilezione per la ballata, e allora suona con un lirismo dove al contrario prevale l’influenza degli arrangiatori della West Coast, come Shorty Rogers, e ciò si traduce in una colorazione armonica moderna.

Se le sue frasi a ottave e ad accordi costituiscono per me la più marcata originalità del suo apporto alla chitarra […], il fraseggio a single note non è meno personale, perché il suo linguaggio possiede una sottigliezza armonica abbastanza originale. Sconvolgimento armonico comunque meno importante di quello attuato da Coltrane: quindi malgrado tutta l’ammirazione che porto a Montgomery, egli per me rimane più come un grande chitarrista di jazz che non come un grande musicista di jazz.

Si è frequentemente paragonato Montgomery a Coltrane. Personalmente non sono d’accordo. Penso che il musicista al quale fa maggiormente pensare per la chiarezza e la perfezione del linguaggio sia Clifford Brown […]. Wes lo vedo come un caso unico nella chitarra, un po’ come Thelonius Monk tra i pianisti. Se la sua influenza è innegabile fra i chitarristi contemporanei, non ha però fatto scuola” (in: Maurizio Franco, Wes Montgomery, Musica Jazz, n. 511, p. XLV; citato da Jazz Hot, 5/1972)

 

 

22.  Pass, Jo-Wes

Che cosa potrebbe scrivere un critico della “vecchia guardia”, spesso custode di una “zoppicante lettera morta” (cfr., sopra, Premessa), ascoltando un’esecuzione del genere?

Nulla che possa aiutarci ad andare da nessuna parte:

 

 

Joe Pass (da: Maurizio Franco, Wes Montgomery, Musica Jazz, n. 511, p. XLVII)

 

[…] più legato alla lezione del bop, al punto da diventare il chitarrista forse più rappresentativo del “modern mainstream”. In un disco come “For Django”, del ‘64, se ne apprezzano al meglio il drive, la modernità armonica e la calda sonorità, in un contesto privo della ridondanza e della routine di molte sue opere successive.

 

 

Si confrontino, per quanto sempre in un’ottica be bop, le vaste e generose architetture di Wes (CD Sarzana 2003, 21), o soprattutto della Remler (CD Sarzana 2003, 24), che si perdono per un numero infinito di chorus, inseguendo in immersione totale storie ampie e articolate, scevre da ogni ansia temporale, con le più “calcolate”, studiate, brevi e, in fondo, meschinelle costruzioni da piccoli “operai edili” di Pass (22) o altri, decisamente modesti, creativamente parlando.

   

19. / 20. / 31.

Metheny, Something to remind you

Metheny-Hall, Don’t forget

Stern, What I meant to say

Attraverso la chitarra si possono raccontare storie d’avventura, thriller, fantascientifiche, di viaggio, d’amore… Queste ultime, in particolare, possono essere tanto di un “rosa” fine e delicato, quanto di un “fucsia” marcato e popular.

E così è possibile imbattersi, da una parte, in una vicenda sentimentalmente matura e ad alto livello, con ampi squarci di teso dialogo animato da una dialettica amorosa piuttosto piquant, con Something to remind you, ovvero delicata, nostalgica e meditativa, con Don’t forget, e, dall’altra, in un romanesque più “easy” e mellifluo, per palati meno colti, certo di più vasto e meno selettivo gradimento, con What i meant to say, piaciuta al primo ascolto persino ad una delle mie precedenti donne delle pulizie (senza, ovviamente, nulla togliere all’intera categoria).

Tra l’altro, Stern gratifica, senza farselo chiedere due volte, il gusto di consumatori assai poco esigenti, quando riprende [cfr., sopra, 8. 2] un orecchiabilissimo, e dunque rassicurante, passaggio del tema, tanto nel bel mezzo del proprio solo, quanto a conclusione del medesimo.

Nel complesso, What I meant to say appare francamente “dolciastra” (commento montaliano sulla poesia del Pascoli; da un’intervista televisiva), effeminata, “romantica”.

   

29. / 30.

Scofield, No matter what

Scofield, Say the brother’s name

In entrambi i soli, Pat, Steve Swallow (basso elettrico e acustico) e Bill Stewart (drums) assicurano a John un campo davvero congruo, stimolante e “leggero”, ritmicamente e armonicamente parlando. In tal modo, Scofield può “viaggiare” sicuro, e concedersi anche qualche ardita digressione: in No matter what, addirittura un dettaglio che in qualsiasi altra circostanza sarebbe apparso a chiunque imperdonabilmente kitsch (un “nitrito” di fine solo!). Qui, invece…

La reciproca relazione tra le due chitarre (tre, con il basso acustico di Swallow, prima in accompagnamento, poi “cattato” da un dolcissimo e meditativo solo in No matter what, 32) appare talmente stretta da potersi intravedere tra piano melodico e armonico un fitto discorso, un rapporto di dinamica e mutua necessità.

 

   

10.  Per una “tecnologica” guerra ai pattern: esercizi di decondizionamento

 

Da qualche anno pratico quelli che, un po’ alla Rimbaud, mi piacerebbe poter chiamare “exercices de dérèglement” (per quanto depurati, in un certo senso, di qualsiasi contenuto palesemente visionario, perché non è una nuova “mistica” musicale che qui si intende inaugurare): 

 

“Maintenant, je m’encrapule le plus possibile. Pourquoi ? Je veux être poète, et je travaille à me rendre voyant […]. Il s’agit d’arriver à l’inconnu par le dérèglement de tous les sens. Les souffrances sont énormes, mais il faut être fort, être né poète […]” (Lettre a Georges Izambard, giovane professore di Arthur, maggio 1871, in Giudici-Di Scanno, Litterature française, Liguori, 1974, p. 769. Rimbaud vi invita l’artista a farsi “veggente”, “attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi”; cfr. Brunel-Bellenger-Couty-Sellier-Truffet, Storia della letteratura francese, Il Delfino, Bologna, 1973, p. 163).

 

 

La loro funzione è quella di costringere la mano e, con essa, la mente ad abbandonare (a dimenticare, a fare tabula rasa di) tutta una serie di “abitudini” che inevitabilmente, proprio in quanto tali, finiscono per esercitare un peso assolutamente nefasto su ciò che potremmo qui denominare “creatività narrativa”, ovvero forse quello stesso “linguaggio dell’anima” in cui, come ha scritto Henry Miller, “non c’è alfabeto né grammatica. Non c’è che da aprire il proprio cuore, gettare a mare ogni preconcetto letterario […], in altre parole rivelarsi. E questo equivale a una misura radicale, che presuppone uno stato di disperazione. Ma, se tutti gli altri metodi falliscono, come devono inevitabilmente fallire, perché no questa misura estrema: la conversione?” (Brunel-Bellenger-Couty-Sellier-Truffet, op. cit., p. 166).

   

L’intima relazione tra la mano e la mente appariva già degna di considerazione persino al grande Bruno: “Nel caso dell’uomo ci troviamo di fronte ad un vivente dotato di uno strumento eccezionale – le mani – e quindi l’intelligenza che lo anima, unendosi a questo strumento, dà luogo ad un organismo che è in grado di lavorare e quindi di produrre «meravigliose invenzioni». Mani ed intelletto costituiscono dunque l’elemento specifico che individua la specie umana di fronte alle altre. […] l’uomo è un vivente che è in grado di provocare la diversità e l’artificio. L’intelletto e le mani sono la dotazione di un essere che può creare nel cosmo uno «spazio umano»” (Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, vol. 2, Zanichelli, 1981, 2ª ediz., p. 103).

E pare che, a tutt’oggi, anche l’archeologia antropo-fisica abbia ben poco da eccepire a simili conclusioni, se tratta dell’evoluzione della mano (nelle sue varie parti e funzioni) congiuntamente a quella del pensiero: “Liberare gli arti anteriori non avrebbe avuto tanta importanza, se in alcuni primati non fosse stata già tanto sviluppata una parte anatomica che li distingueva da ogni altro animale: il pollice specializzato, cioè capace di ruotare su se stesso indipendentemente dalle altre dita. È su questa particolare conformazione delle ossa che gli ominidi fondarono la loro capacità di sopravvivere nel nuovo ambiente. […] essi non fecero altro che approfittare sempre più di quelle mani libere e di quel pollice: un sasso tenuto saldamente in pugno poteva aiutarli a scavare un terreno duro […]. Con questi esercizi continui i muscoli della mano e del polso si svilupparono e alla forza cominciò ad accompagnarsi la precisione […]. Dal punto di vista strettamente anatomico, fu l’ingrandimento della scatola cranica a permettere al cervello degli ominidi di aumentare il proprio volume […] perché molte funzioni del cervello dipendono proprio dal numero delle sue cellule, e tale numero aumenta appunto con il volume. Ma il volume da solo non sarebbe bastato. Ciò che fu decisivo fu che l’uso continuo di utensili impresse uno sviluppo enorme ad alcune zone particolari della massa cerebrale, e precisamente alla corteccia […] costituita dalla cosiddetta «sostanza grigia». I numerosi solchi e le circonvoluzioni che la caratterizzano – enormemente più sviluppati che in qualunque altro mammifero – presiedono alle funzioni tipiche dell’uomo costruttore: la memoria, necessaria a ricordare esperienze passate e ad evitare di ricadere negli stessi errori; la facoltà di previsione, che lentamente permise all’uomo di «progettare» […], l’abilità manuale, necessaria a realizzare in concreto il progetto formulato dalla sua mente; la capacità di comunicare ai suoi simili notizie più articolate” (Calvani-Giardina, Storia antica, Laterza, 1984, pp.10-11).

   

Per tornare alle mie pratiche di “deragliamento” (traduco dal francese con una libertà che mi piace) dalle comode sicurezze, a ciascuna di esse è possibile dare un nome: sedute di “degustazione” (a base di note e assemblaggi verticali suonati molto lentamente e senza “quantizzare” le durate entro canoni noti o prevedibili), “disegni” a mano libera (nella più assoluta sospensione del pensiero teorico-tecnico, le dita vadano esattamente dove gli pare), cromatismi alla “deriva” (su note o configurazioni di note, si suoni sistematicamente fuori da ogni tonalità banalmente riconoscibile), “Babilonia” (guazzabuglio di tempi, durate, dinamiche e via dicendo, secondo l’istinto e ad libitum).

Quanto ai “sensi”, c’entrano eccome, dal momento che, salvo un inquadramento degli esercizi appena suggeriti in un’ottica più globalmente sinestetica, le dimensioni percettive coinvolte nei miei espedienti “liberatòri” sono almeno tre: in ordine di importanza, il tatto, ovvero le dita (che percepiscono pressioni, rugosità, spessori, velocità, direzioni di movimento, reciprocità sempre diverse, e chissà cos’altro), l’udito (a cui giungono stimoli sonoro-musicali di volta in volta differenti), la vista (importantissimo strumento mnemonico, a meno che, come d’altronde può essere utile fare, non si suoni al buio).

Grazie a ciascuno di questi tre canali il cervello viene raggiunto da segnali e stimoli che, una volta sintetizzati, non possono non esercitare sulle sue strutture delle azioni “trasformative” di una certa entità (nel senso dell’iniziare a sentire, pensare, progettare e suonare in maniera “differente”).

   

Dopodiché, non è affatto detto che quel certo artista non debba mai più usare una sola scala dorica o superlocria, per dare vita concreta alle proprie immaginazioni narrativo-musicali.

Semplicemente, a quel punto tutto avverrà da sé: il ricorso a una determinata modalità (piuttosto che un’altra), l’utilizzo di una precisa struttura, già data, accadrà nella più assoluta e “naturale indifferenza alle regole” (per quanto possa ancora e ancora succedergli che qualcuno gli chieda, in tutto candore: “Ma… quali sono i modelli da a cui sei partito, o la teoria a cui fai riferimento per suonare in questo modo?”. No problem. Far finta di nulla, rivolgendo comunque all’ignaro interlocutore del momento un filosofico sorriso di buddhistica comprensione).

   

In fin dei conti, lo stesso Rimbaud ci racconta del suo Bateau ivre servendosi di quei medesimi materiali paradigmatici precedentemente utilizzati (è ovvio: per parlare d’altro) da chissà quanti si sarebbero certamente considerati anni luce remoti dalle sue più dissacranti intuizioni; e lo fa nello stesso modo in cui, volontariamente e “metodicamente” allucinato, egli (re)-inventa il colore delle vocali (Voyelles), disponendo i materiali linguistico-espressivi preesistenti in modo de-condizionato, libero da pattern, per istituire nuove corrispondenze sulla scorta di misteriose sinestesie.

Genere di operazioni su cui il poeta riflette in un celebre passaggio de Una stagione all’inferno (“Alchimia del verbo”, Rizzoli, BUR, 1961, p. 93):

   

Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. – Regolavo la forma e il movimento di ogni consonante, e, attraverso ritmi istintivi, mi lusingavo di inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Me ne riservavo la traduzione.

 

 

 

Per contatti: gbguit@libero.it

 

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