Blocco note

di

Gianni Bergamaschi

 

1. Una massima che non mi dispiace

 

"Nessuno può scoprire nuovi oceani a meno che abbia il coraggio di perdere di vista la riva" (da Acquaroli-Capresi [a cura di], Come mantenere il cuore giovane, Edizioni Anastasis, 2002, p. 45).

È in sintesi un po’ il senso della ricerca che vado conducendo, soprattutto a partire dal 4° saggio prodotto per questo stesso sito ("Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi): muove dal concetto di "paura" e dalla necessità di "perdere di vista la riva", cioè i "pattern", per poter…

 

2. Suonare in D

 

«Nei riguardi di Pat Metheny [Joe Pass] non fu mai molto tenero; nel 1982, ascoltando "Goin’ Ahead", diceva: "Questo non è jazz, è pop! Il brano è suonato in Re, perché sulla chitarra fa un buon effetto. Musica tranquilla, tranquillizzante, da tenere in sottofondo, ma non mi interessa affatto"» (Chitarre, 112-113, luglio-agosto 1995).

Anch’io amo molto suonare in D.

È un mio "limite"…?

 

 

3. Il "limite" come fattore di stile

 

Mi pare sia stato Bill Frisell (ma non sono più riuscito a rintracciare il passaggio di intervista in cui egli affermava ciò che qui riferisco), a riconoscere come le proprie innate carenze tecniche in termini di velocità o abile virtuosismo lo abbiano in generale dissuaso dal porsi degli obiettivi oggettivamente irraggiungibili (e, in ultima analisi, a lui del tutto estranei), inducendolo piuttosto a lavorare nel senso di una sempre più esatta "individuazione" della propria "vera strada".

 

È così che un "limite", accompagnato dal consapevole riconoscimento/accettazione del medesimo, può divenire, in mano ad un appassionato e disinibito ricercatore (capace cioè di una visione metacognitiva di se stesso, nonché dotato della capacità di porsi delle buone e sincere domande, senza alcun timore di imbattersi in qualche "buco nero"), impagabile fattore di stile.

Il limite costituisce così l’esatto "campo" entro il quale val la pena di operare, senza alcun bisogno di evaderne per inseguire "chimere" che magari neppure ci riguardano, e che nella migliore delle ipotesi farebbero di noi soltanto dei vuoti e banali ripetitori-imitatori di pattern altrui.

Ogni musicista, poeta, narratore, pittore e via dicendo possiede, naturalmente, dei propri e ben precisi "limiti"; "propri" in quanto non comuni ad altri.

Dunque, solo suoi: inalienabili.

Per questo stesso motivo neppure è possibile che egli ne venga "derubato", espropriato.

Non vi è nulla che possa appartenerci più dei nostri difetti, e certamente nessuno vorrà copiarceli, plagiarceli, farli suoi.

 

Nel clima di quel profondo e sano rilassamento che ovviamente ne consegue, ogni ricerca sarà possibile al meglio.

Se poi si fonderà su un’accurata, asciutta (e spietata) ispezione dei nostri oggettivi "confini", veramente nessuno potrà condurla al nostro posto.

Quei limiti, quei difetti, siamo noi stessi, e potrebbero diventare la nostra forza, cioè esattamente quel quid che di noi prima o poi piacerà a qualcuno.

 

Non credo che la gente sia realmente interessata, se si tratta di musica, a dei robot capaci di eseguire a velocità da Speedy Gonzales composizioni fuori da ogni umana portata, quanto a difficoltà o complessità. Ritengo piuttosto che, superato un primo naturale stordimento dovuto al carattere indiscutibilmente stupefacente di talune performance, anche il più comune degli ascoltatori preferisca alla fine godersi qualcosa di più "umano", che abbia un senso, che comunichi delle emozioni, racconti una storia, e lo faccia nel modo più funzionale ed efficace in ordine ad obiettivi del genere.

 

In tal senso, rendersi consapevoli dei propri limiti significa anche mettere adeguatamente a fuoco ciò che si è, ovvero quelle che sono le nostre predisposizioni, preferenze, tendenze, "perversioni" e debolezze.

Come dire: se io non sono diverso da così è perché, effettivamente, qualcosa di differente non mi riguarderebbe affatto.

I difetti si rivelano allora per quel che veramente sono: segni tangibili della nostra in-differenza (delle nostre in-differenze), ovvero di tutto ciò per cui non faremmo alcuna "differenza", cioè non cambieremmo in nulla il nostro più naturale comportamento e modo di essere.

 

I limiti andranno dunque coraggiosamente riconosciuti, adeguatamente esplicitati ed evidenziati, intelligentemente valorizzati, "potenziati" e fatti fruttare.

Da "talloni d’Achille" si trasformeranno in "cavalli di Troia", e potranno essere fatti valere quali preziosi e insostituibili ingredienti di inconfondibilità: fattori di stile.

 

 

4. Una "semantica" del suono chitarristico?

 

Parlando di Wes Montgomery durante un’intervista rilasciata nel maggio del ‘72 a Jazz Hot, Christian Escoudé conclude con le seguenti parole: "Sconvolgimento armonico comunque meno importante di quello attuato da Coltrane: quindi, malgrado tutta l’ammirazione che porto a Montgomery, per me rimane più come un grande chitarrista di jazz che non come un grande musicista di jazz."

Da quale pulpito viene la predica…

Sotto svariati aspetti, Escoudé costituisce uno tra i più disarmati (e impreparati) rappresentanti di quel tipo di "interpretazione angustamente chitarristica" della chitarra alla quale da molto tempo cerco di sottrarmi…

 

Per suonare la propria sei corde in modo tale che l’effetto non appaia introversivamente "chitarristico" (qualità del suono, approccio allo strumento da parte di entrambe le mani, della penna, dei polpastrelli o delle unghie, vere o artificiali, strutture "performative" orizzontali/verticali, stile melodizzante o armonizzante, tipi/modalità di fraseggio, ecc.), non è sufficiente porsi quale obiettivo quello di far sì che essa assomigli a un pianoforte o a un "corno" oppure a un flauto e via dicendo.

Sarebbe come rinchiuderla, ancora una volta, in un angusto e preciso universo, benché "altro" da quello "proprio e originario" (storicamente costituitosi e "concrezionatosi"/catacresizzatosi).

Occorrerebbe invece qualcosa come "non far sentire il plettro, la tastiera, le corde, ecc.".

La chitarra può dire e parlare di tutto nel momento in cui i suoi propri "storici limiti" vengano superati e l’obiettivo, cioè il modello da tener presente e a cui uniformarsi pian piano, cessi di apparire di natura meramente strumentale, per farsi più ampiamente linguistico-espressivo.

Certamente, la chitarra non dev’essere "scimmia" onomatopeica di alcunché ("1ª fallacia hendrixiana"), ma su questo si rilegga, in "Narrative music" / "narrative guitar", il paragrafo 7.

 

 

5. Le mie note preferite in una loro speciale posizione

 

 

F# sul 7° capotasto, E sul 9°, D sul 7°, A sul 7°, B sul 9°

 

Sono forse queste le note che infaticabilmente andavo cercando (cfr. "23.08.2003. Minimalismo?", in Diario di fine estate)?

"Il varco è qui?" [E. Montale, La casa dei doganieri]

L’ho forse trovato nella coda da me improvvisata per Le temps jadis?

Queste cinque note mi comunicano una tenerezza indefinibile (quella stessa nostalgica "tristezza" [*] che più di ogni altra motivazione muove l’uomo al racconto) la quale certamente non può esser detta in altro modo che attraverso dei suoni semplici e puliti, ma concentrati e intensi.

Sarebbe interessante osservare se/come nel tempo (e, soprattutto, attraversando quali età) questo genere di predilezioni vengano o meno a modificarsi.

 

[*] "Raccontare una storia significa occuparsi del tempo, ed esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine, e che la vita dei nostri amici ne ha pure uno. L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada… Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata. Il raccontare storie ha a che fare col fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie."

 

(P. Bicshel, "Il lettore, il narrare", in: Batini-Zaccaria [a cura di], Per un orientamento narrativo, p. 39)

 

 

 

6. Musica, narrazione e "tristezza"

 

Spesso, durante certi dormiveglia, prima che si faccia completamente giorno, mi travolgono e subissano slavine di ricordi (una miriade, un volume, una valanga), musicali e non, e con infinita passione mi domando come io possa mai recuperare tutta quella musica, quelle incredibili situazioni in grado di scatenare in me, oggi, una nostalgia tanto intensa.

Oggettivamente, non è possibile tornare indietro.

Un "simbolo" fra tanti: forse non accadrà mai più che io possa riascoltare tutta quella musica in vinile che mio padre, qualche anno prima di andarsene, dopo essermene andato io, accuratamente ripose in soffitta dentro ad uno scatolone. Tra l’altro, non ho più nemmeno un giradischi come quelli che andavano allora, diciamo 30-40 anni fa.

E allora? Non resta che ricordare, non dimenticare, conservare tenace memoria di tutta una "vita" che ancora pulsa, agisce, scava, "forma" dentro di noi, sebbene non sia più.

A me è possibile farlo soprattutto suonando.

Come dire: la mia musica vale per me anche nella misura in cui essa è capace di supplire a tutto un mondo di "suoni" che ormai non mi sono più accessibili, per un’infinità di ragioni, tra cui quella puramente materiale.

Le mie composizioni preferite sono effettivamente quelle in cui riesce più spesso a intrufolarsi qualcosa di quell’emotivo universo musicale ancora molto vivo in me, grazie a melodie e armonie che, pur non essendo granché simili, strutturalmente parlando, a quelle musiche che hanno contraddistinto la mia adolescenza e giovinezza, oltre al tempo che è venuto prima e quello che c’è stato poi, scatenino comunque sentimenti affini a quelli suscitati dalle "storie" di allora, o quanto meno il senso di struggente malinconia che ora provo, ad esempio, contemplando il tempo che se ne va e quante cose con lui non potremo mai più riavere…

Così, le mie favourite things sono esattamente quelle che in un certo senso riescono a tracciare una sintesi emotiva della mia esistenza musicale (e non) passata.

Anch’io fermamente credo che alla base della narrazione stia (e debba essere) la "tristezza".

Quante musiche e poesie, quanti racconti nascono da lì e, persino, quante storie musicali verosimilmente allegre e movimentate ne sono state tratte, forse anche proprio per esorcizzare l’immobile e nostalgica contemplazione per cui ogni artista crea.

Chi non sa costantemente avvertire in sé questa sottile "vena" non può che distruggere.

 

 

7. Il ritorno dell’Hesperus

 

A volte ci si sente come schiacciati dalla mole dei ricordi, delle esperienze, dei suoni, della musica ascoltata e amata tanti anni fa, e tutto sembra così irrecuperabile.

L’angoscia ci toglie il respiro.

Ma è proprio così che stanno le cose?

Alcuni direbbero (e, tra questi, forse anch’io) che la nostra anima non dimentica nulla di quanto ha "vissuto". Come sul disco rigido di un computer, file temporanei, remoti, recenti o aperti, tranquillamente (?) convivono e, se si conoscono le giuste strategie, li si può recuperare/attualizzare in ogni momento. È vero?

Il mio guaio, però, è che vorrei riportarli in vita tutti assieme, contemporaneamente, perché a ciascuno di essi è legata un’emozione irriducibile (penso, ad esempio, alla più recente mia riscoperta dei Procol Harum: The wreck of the Hesperus (Il naufragio dell’Hesperus). Operavano da sempre vitalissimi nella memoria: agivano, anche se non ne avevo più assaporato un solo brano da anni. Tempi vuoti, duri, rigidi, sterili questi in cui viviamo: io, in apnea).

Che fare, allora?

Suonando la mia sei corde mi sembra di avvertire in ogni singolo suono un’emozione intensa e sintetica (cfr. il mio Diario di fine estate), uno spessore di esistenza che fa dire a quella certa nota infinitamente più di quanto in termini tecnico-musicali essa possa contenere o significare. Qualcosa che nemmeno è possibile annotare sui righi di un pentagramma, naturalmente, ma che le dita "sentono", nel momento in cui i vissuti le agitano dopo essere passati per il cuore, che ha reso loro tutto lo smalto di un tempo, e qualcos’altro ancora.

Se la musica che oggi andiamo suonando è "vera", allora nulla è andato perduto: è tutto lì dentro, anche se i "supporti materiali" delle esperienze sono andati distrutti o giacciono sepolti da qualche parte o abbandonati strada facendo o, sotto chiave, preservati in qualche scrigno remoto e segreto.

 

 

8. Disciplinare il "vuoto"

 

Una faccenda che da qualche tempo mi appassiona e che probabilmente val la pena di approfondire concerne le varie possibili modalità di smorzamento del suono, per lasciare spazi al silenzio assoluto, alla totale assenza di "significante", al "vuoto", alla più pura desolazione (de-suonazione).

Non intendo il silenzio tradizionalmente valorizzato da molti autorevoli chitarristi (tra i più consapevoli, Jim Hall) quale pausa introdotta nell’azione performativa, mentre la corda viene lasciata tuttavia risuonare (e dunque ancora parla, racconta, benché in un discorso che lascia respiro, espande il senso, non congestiona affastellando).

Il silenzio di cui potrebbero parlare i sostenitori del "vide" (se, oltre a me, ve ne fossero) sarebbe esattamente, radicalmente, uno zero d’azione, una secca reticenza, per non rischiare di dire troppo, troppo in fretta, tutto subito, contestualmente, inflazionando con ciò il discorso, e dunque togliendo pregnanza alle strutture.

Questo silenzio coincide, tecnicamente parlando, con la radicale cessazione di ogni vibrazione al livello della corda (evento che potrebbe esprimere ulteriori e forse inedite implicazioni). Dunque, non è in gioco il ben noto argomento relativo a quella particolare e diffusa "fregola affabulatoria" dalle mille cause che i migliori tentano di risolvere o schivare escogitando altrettanti espedienti.

Comunque sia, anche senza badarci troppo e pur eseguendo una cosa qualsiasi, mi capita spesso di "disciplinare" la durata e qualità delle risonanze, al punto che non sembrano più delle pure corde di "chitarra" (riconoscibili soprattutto dal particolare loro sustain) a produrle, bensì qualcos’altro.

Se invece ho voglia di operare con maggior sistematicità, dapprima stabilisco con quali brani, dinamiche e a quali velocità tutto ciò può dare esiti significativi; quindi utilizzo il palmo della mano destra più o meno come una sordina di pianoforte (con effetto secco ed improvviso, selettivo o variamente graduato).

 

 

9. L’attitudine

 

Ho meditato a lungo sulla massima "Non è la tua posizione che ti rende felice o infelice, ma piuttosto la tua attitudine" (Acquaroli-Caparesi [a cura di], Come mantenere il cuore giovane, Edizioni Anastasis, 2002, p. 8).

Stamattina, mentre mi sgranchivo le dita eseguendo qualche composizione recente, ho avuto la netta percezione del fatto che, volendo, quelle mie mani, quel mio orecchio e quel mio cuore avrebbero, in quell’esatto istante, potuto suonare qualsiasi cosa.

È questa l’"attitudine"?

Risiede in tale specifica forma di "libertà" la felicità di cui parla la massima?

 

 

10. Carattere "orale" della musica jazz

 

Jazz: musica non scrivibile.

Problemi di "tenuta mnemonica" sulle lunghe distanze, persino dei miei temi.

Scrittura, piuttosto approssimativa, della sola trama armonica, con fugace accenno all’incipit melodico, tanto per poter domani fare mente locale.

E tutto il resto?

Aver sempre presente la propria produzione, dal primo all’ultimo brano?

Impossibile.

Tenerne a mente appena una parte, quella più recente?

Sì, ma con quali perdite?

È verosimile che tutto resti comunque, in qualche modo, nell’infinito serbatoio della memoria, continuando ad agire, ad influire su di noi "da dietro le quinte"?

Che ne è stato, ad esempio, di una certa Mariahilferstrasse che composi nel ‘96?

Per quanto impegno ci metta, non riesco a ricordarne una sola nota.

E pensare che solo qualche anno fa, durante una serata in un club, la suonai in totale solitudine, tra una libagione e l’altra dei miei amici musicisti, in luogo di un brano dei Weather Report che mi era stato cortesemente, anche se molto inappropriatamente, richiesto.

Doveva essere proprio bella, dunque!

Dimenticare completamente (almeno sul piano conscio) gran parte di ciò che si è pensato, scritto, suonato, è bene o è male?

È forse nell’insolubilità di un tale mistero l’ineffabile essenza del jazz?

 

 

11. Domenica 22 febbraio 2004

 

Oggi, cambiando dopo tanto tempo le corde alla mia taiwanese, mi sono trovato nei pasticci (non è la prima volta). La nuova muta, esattamente dello stesso calibro della precedente, non regge assolutamente il confronto con quella appena congedata: sotto il profilo del suono, della morbidezza, dell’action, della flessibilità, della "rotondità", del calore, dell’oralità e della nettezza di risposta.

Che stress doversi ogni volta separare da corde che ti hanno dato tanto, e tanto ancora forse potrebbero darti! Ma c’è in vista un concerto a cui tieni parecchio e magari sono vecchie davvero, forse mancheranno di freschezza, di armonici, forse

Decido di scalare le tre corde gravi, e vado a recuperarne alcune tra quelle nuove o seminuove (cioè sostituite dopo uno o due giorni di servizio) messe da parte, perché non si sa mai: l’uomo è mutevole.

Monto alla VI una 042, alla V una 036 e alla IV una 026. Le altre restano una 020 wound, una 013 e una 010. Forse la 013 è un po’ scarsa (magari andrebbe meglio una 014…) e la 010 un po’ abbondante (chissà cosa accadrebbe se al suo posto montassi una 09?), ma ora tutto sembra andare meglio.

Più o meno, come volevo.

Un po’ troppo "scalate", forse? No…

Chissà quanto durerà questa "fragile felicità"?

 

Mi sembra interessante, invece, osservare come da tempo (forse da sempre) io vada piuttosto evitando corde troppo corpose, bassi troppo pieni, percussivi, prepotenti e, in ultima analisi, "sporchi", tumultuosi, impallati, poco trasparenti nella loro composizione armonica (complessa e oscura, come quella dei brutti "rumori"), poco leggibili, disponibili o gestibili, poco adatti al "canto".

Non ho mai concepito la chitarra come utensile puramente ritmico o strimpellacanzoni, sebbene lo sia per molti.

Al contrario, mi piace che anche il Mi basso, il La e il Re "càntino", e non sopporto escursioni di calibro troppo evidenti tra il Mi cantino e quello grave. Fosse per me, le sei corde avrebbero tutte lo stesso diametro (poi, però, sorgerebbe il problema della loro morbidezza ai diversi gradi di tensione…).

La mia chitarra "ideale", allora, dovrebbe poter indossare corde tutte dello stesso calibro e "durezza", capaci di produrre, ma con pari leggibilità, note di altezza differente, e lungo il percorso della mano dal I al, diciamo, XV capotasto presentare un’action unica e costante.

Uno strumento così non te lo fabbrica nessuno ma, lavorandoci un po’, la realtà potrebbe, pian piano, discretamente concorrere con i sogni.

 

 

12. 010-042

 

Ah!, le mie oramai rarissime "scalature pastello" (E-Mi cantino 010, B-Si 013, G-Sol 020 wound, D-Re 026, A-La 032, E-Mi basso 042: tutto più delicato, leggero, umano, naturale, graduale, senza strappi), contro le manichee e rozze dialettiche 008/052, a tinte forti ma insensibili e anaffettive, degli adolescenti rockisti-rockettari del nostro tempo, tanto vistosamente coccolati e vellicati dalle case produttrici del III millennio.

Quando lessi della muta utilizzata da Mike Stern, una particolarissima 011/038 (http://www.mikestern.org/equipment.html), rimasi piacevolmente sorpreso. Il mio stesso discorso, anche se condotto alle estreme (e chissà se ancora logiche: ma qui la logica non c’entra) conseguenze.

In un precedente saggio (Diario di fine estate) scrivevo di una tra le mie scalature meglio tollerate (la Ernie Ball 010/050), per un certo modello di chitarra che vado suonando ad oltranza, e aggiungevo che, per mia sfortuna, mute di tal genere si fanno vedere sempre meno in giro: calibri oltremodo radicali ed eversivi fagocitano ormai voracemente l’esigua nicchia un tempo concessa a filosofie ben più equilibrate. Per non dire del magico cassetto delle corde sfuse, da poter liberamente assemblare secondo i propri gusti e tendenze. Sparito anche quello o, se c’è, non contempla che i soli rabbocchi alle mute manichee: si sa che i nuovi chitarristi "spaccano su" corde a palate. Un Sol 020 wound tra quella robaccia non potrebbe essere che l’effetto d’un pietoso miraggio…

 

Stavo dicendo del mio Diario.

Che cos’è accaduto, nel breve giro di poche settimane dalla data della sua pubblicazione in rete (http://www.adgpa.it/diario.htm)? Mi sono visto raggiungere nientemeno che da una cordialissima mail di Richard Cocco (squisito presidente della La Bella Strings, Newburgh, NY; www.labella.com), il quale assai cortesemente mi chiedeva di trasmettergli l’indirizzo della mia abitazione per potermi mandare alcune mute di quell’esatto calibro. Fortune del genere non capitano tutti i giorni, tanto più che di tale marca conservo ancora un meraviglioso ricordo, avendone abusato da giovane, e per anni. Sistematicamente montate sulla mia Tele di allora, restituivano un sound francamente "impagabile".

Che cosa gli ho risposto?

La ringrazio infinitamente per la Sua straordinaria cortesia, ma ne approfitto accettando appena una muta. Meglio ancora se il calibro fosse il seguente (sto attraversando una fase evolutiva molto interessante): 010-013-020 wound-026-032-042. Qualora le Sue corde dovessero soddisfare, come credo, le mie esigenze, Le inoltrerei una più sostanziosa richiesta.

 

Dopo appena un paio di settimane mi vedo arrivare dagli States ben cinque mute di La Bella Electric 10/46 (010-013-018-026-036-046) Perfectly Balanced Sets, che al solo sfioro mi sembrano fantastiche.

Addirittura delle 018 wound !! Wow !!!

Ancora una volta mi chiedo come mai i nostrani italici rivenditori riservino ai propri fedelissimi clienti opportunità tanto miseramente standard, in fatto di stile e libertà, nel potersi "creare" le proprie mute a seconda di come loro detta il personale gusto.

 

A cosa è dovuta l’evoluzione parentetizzata nella mia risposta a Mister Cocco [ma cfr. anche la mail a Riccardo F., più sotto]?

Ogni chitarra (in quanto body, "corpo", esattamente come noi esseri umani) "richiede" di potersi esprimere al meglio attraverso delle precise corde "vocali": a seconda del materiale che la costituisce, della sua massa (rapporto peso/volume), della particolare linea ("silhouette") che le è stata data, della capacità di risonanza della sua cassa armonica (persino in una solid-body!) e dell’intensità di cui è capace.

Tutto questo è intuitivo, e qualsiasi buon chitarrista (buon musicista) se ne rende immediatamente conto. Basta "mettersi nel legno" di un determinato strumento e sentirne empaticamente le specifiche esigenze.

Ora, la chitarra che mi va di suonare in modo pressoché esclusivo (la "piccola taiwanese") va necessariamente, inesorabilmente inducendomi verso una concezione per me inedita circa quel che esattamente dovrebbe essere una muta di corde.

Di conseguenza, la resa di queste ultime sembra dover assomigliare sempre più, nel mio modo di suonare, a qualcosa che trascenda la stereotipica "grana" dello specifico strumento al quale mi esibisco (raccontando qualcosa), per divenire "voce".

Una voce che non deve necessariamente tendere verso quella di qualche altro strumento (ad es., il sassofono o il pianoforte, come, stando alle esplicite loro dichiarazioni, sembra accadere a molti, con esiti, a dire il vero, per taluni aspetti interessanti), quanto piuttosto esaltare determinati "tratti soprasegmentali" (concetto semio-linguistico) o prosodici che pongano in primo piano la "materia" stessa del suono, facendola apprezzare per quel che essa ha d’inconfondibile e unico.

In tal senso, diventa a mio avviso oltremodo determinante tutto ciò che accade a partire dal G wound in direzione del MI basso: è soprattutto da quel punto che il "salto" di diametro tra una certa corda e quella immediatamente successiva deve risultare il più possibile contenuto, affinché il Mi grave, premuto all’altezza di un qualsiasi proprio capotasto, sia comunque capace di "cantare", ovvero di rispondere in modo morbido, sensibile, vibrante, disponibile e "aperto" (soprattutto nel senso della sua costituzione armonica) alle più diverse sollecitazioni della mano sinistra. Tutto questo è possibile principalmente riducendo il volume/corpo d’attacco (conseguente all’energia con cui qualsiasi corda massiccia come un bastone deve necessariamente essere "scossa" perché in qualche modo reagisca), vellutando il tocco del plettro e quindi attendendo che, quasi per simpatia, la corda vibri spontaneamente alle nostre intenzioni.

Naturalmente, ogni chitarra va ascoltata e compresa, altrimenti si rischia di adattarvi delle mute assolutamente incongrue, per non dire ingiustificabilmente assurde.

È necessario, cioè, che ogni chitarrista, per comprendere la propria chitarra, ne individui innanzitutto le reali qualità e, paradossalmente, scopra di rimando se stesso semplicemente accettando quelle, valorizzandole e adattandovisi al meglio (che non vuol dire: alla meglio).

 

13. Rileggendo il precedente paragrafo…

… mi viene da immaginare quanto sarebbe interessante elaborare tutta una teoria (e pratica) delle ultime 4 corde (dal SOL al MI grave), fermo restando che il loro calibro deve essere quello sopra indicato (020-026-032-042).

Creare melodie, studiare armonizzazioni e sperimentare per qualche tempo dei solo unicamente agiti sulle corde rivestite potrebbe conferire al nostro stile una concisione, una riflessività e uno spessore certamente assai originali e maturi.

Alcuni tra i più noti ed eccellenti chitarristi hanno già tentato questa via, benché solo occasionalmente e senza indugiarvi più di tanto. I bassisti/contrabbassisti, invece, sperimentano da decenni, e con notevole successo, la possibilità di suonare in modo autarchico uno strumento che evidentemente non è più solo una grancassa o, peggio ancora, un arnese per tormentare le trippe con le sue frequenze più gravi, bensì quasi un romantico pianoforte, una nostalgica chitarra, un soffuso o gridante sassofono, un imbelle flauto ecc. ecc.

Si pensi a come le nuove generazioni trascurino le potenzialità espressive connesse ad un utilizzo più ricco, sistematico, articolato e completo delle ultime quattro corde, per farne invece un rude metronomo o applicarvi le più insostenibili distorsioni, e si rifletta pure sulla costante emarginazione di cui esse vengono per lo più fatte oggetto da parte di chi, in realtà, "non conosce" tutta la tastiera, sfruttandone perciò appena una frazione, quella più lancinante.

Primo tema di meditazione: qualsiasi avventura lineare svolta sulle quattro corde wound tende ad assumere un andamento contrabbassistico, e ciò non mi pare cosa da poco.

Altro tema: sembra che passando nuovamente alle prime due corde dopo aver lungamente suonato quelle rivestite si debba quasi "saltare" da un certo genere di visione del mondo, o tipo di strumento, a un altro. Cosa che non è facile avvertire procedendo in senso opposto, cioè suonando per lo più (come molti fanno) le corde non rivestite (soprattutto sul registro più acuto) e passando, di tanto in tanto, a quelle più gravi.

Infine, non vanno trascurate alcune implicazioni a carattere spiritualistico-trascendentale di cui però ho già detto nel saggio La formazione del suono nella chitarra jazz, quando osservavo la tendenza di alcuni attuali big della sei corde a volare, soprattutto nel corso dei propri solo, verso frequenze via via più elevate (cfr. Pat Metheny).

E se è vero che queste corrispondono ai nostri "colori" più intimi…

 

 

14. Durante tempi freddi e indifferenti…

 

… sento il bisogno di tornarmene per un po’, come fosse un porto sicuro, ad una calda e generosa Ibanez.

Acustica.

Qualunque tipo di corde vi monti, il suono da lei prodotto è sempre così confortevole, intimo e vellutato; la sua tastiera impareggiabilmente corretta, morbida, uguale…

Suonarvi qualcosa di appassionato ogni volta mi commuove.

Ricorro a lei perché ho bisogno di rientrare in me stesso, di sintonizzarmi su dimensioni altre da questa realtà.

 

 

15. Solipsismo?

 

In apparente (verosimile) conflitto/contraddizione con quella gran voglia di fare, di dare, di aprirsi, di incontrare il mondo che moltissimi musicisti effettivamente avvertono in sé, può talora manifestarsi (soprattutto presso quelli il cui strumento, o la cui particolare tecnica, possa permettergli di suonare compiutamente anche, e forse soprattutto, in perfetta solitudine [condizione che definirei "autarchica"]: dunque, non ne sono esenti i chitarristi fingerstyle) una certa condizione che potremmo chiamare "solipsismo".

Potendo suonare (per se stessi o per altri) senza bisogno di alcun sostegno musicale, armonico o ritmico, da parte di terzi, spontaneamente si tende a cercare, individuare, identificare, sperimentare, costruire, studiare, approfondire e sviluppare un proprio stile, un personalissimo ed inconfondibile modus operandi.

Come se fosse possibile (e lo è) edificare (ovviamente, sempre tenendo presenti le più fondamentali regole generali: anche per violarle, se necessario) tutta una propria individuale teoria (cfr., ad es., la mia "grammatica narrativa" della chitarra, in "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi), traendola soprattutto da se stessi, auto-maieuticamente, autodidatticamente (cfr. il mio Per un’"autodidattica" della composizione e dell’improvvisazione nel jazz), per quanto comunemente si creda che l’autoindividuazione, la ricerca della propria identità sia possibile unicamente stando in mezzo agli altri (nel nostro caso, suonando con altri musicisti), per poter intersoggettivamente verificare la qualità, il livello, il valore o l’attendibilità di ogni nostra sperimentazione o conquista.

Ma cosa accade nel momento in cui questo "essere nel mondo" può essere surrogato mediante forti dosi di immaginazione empatica ?

 

Il fatto di continuare a suonare (e quindi amare) il proprio strumento, sebbene non s’abbia alcuna intenzione di finalizzare tale pratica di costante studio e perfezionamento a nulla di preciso o di immediato, mi appare come la prova provata di un autentico e puro amore.

Può uno strumento musicale sostituire e divenire l’Altro, nella stessa misura in cui all’estrema solitudine del "diverso" o dell’"anziano" non resta che un cane quale unico interlocutore? È possibile, in tal senso, "parlare" con il proprio strumento, oltre che a terzi per suo tramite?

Tuttavia, è talora possibile cadere in un’insidiosissima fallacia a causa della quale si finisce per credere che ciò di cui ci si sta occupando in quel dato momento sia la propria vera "strada" e "vocazione". Quindi si decide di darvi sotto con accanimento fanatico; poi, al primo significativo insuccesso (la "Cosa" ci "tradisce"? Scopriamo che quella certa nostra pro-duzione non potrà mai avere "mercato"?), ogni interesse decade, si abbandona tutto e si cambia percorso, dirigendo lo sguardo su qualcos’altro.

Reazione assai umana e comprensibile. Resta comunque l’imperativo per cui, ogniqualvolta ci si appassioni a qualcosa, bisognerebbe interrogarsi con estrema franchezza sulla non effimera autenticità dell’invaghimento.

In tal senso, questo mio riuscire a suonare anche per lunghi periodi nella più totale solitudine, senza alcun bisogno di preventivare imminenti destinatari, davvero non si fonda su quella sottilissima fallacia particolarmente insita in una compiaciuta auto-narrazione, decadentisticamente "perdente", dell’affascinante racconto-simulazione di un cercatore minimalista e meditante? Figura indubbiamente dignitosa e attraente per molti.

Questa forma di "solipsismo" (certo motivato e/o giustificato da mille circostanze) non potrebbe forse sconfinare, per sola virtù immaginativa, in un’allucinata giustificazione della sola auto-comunicazione, quale compiuta e vera possibilità di comunicazione, senza più bisogno di alcun pubblico, ovvero di nessuno fuori da sé?

 

Quale dottrina filosofica, il solipsismo afferma l’evidenza assoluta del singolo Io (solum ipse = solo se stesso) e dei contenuti di coscienza, negando, in quanto idealismo soggettivo, vera realtà al mondo esterno e agli altri soggetti. In tal senso, l’io individuale, con i suoi sentimenti e sensazioni, costituirebbe tutta la realtà, gli altri io non esistendo se non in quanto sue pure rappresentazioni, dunque prive di ogni realtà in sé.

L’unica forma di conoscenza è dunque l’"esperienza" del soggetto individuale, al di fuori della quale nulla esiste, neppure le altre persone con le proprie eventuali esperienze, riducendosi esse a meri fatti percettivi dell’io individuale.

Tuttavia, il solipsismo può essere valorizzato in quanto metodo, se l’ego, al fine di acquisire delle basi indubitabili su cui successivamente poter edificare un qualche sapere (kantianamente interdetta ogni diretta conoscenza del noumeno, della "cosa in sé"), ammette la necessità di doversi cartesianamente rifare alle proprie evidenze interiori: "In senso analogo il solipsismo è stato rivendicato anche da E. Husserl: proprio tornando in sé l’io si scopre costituito dagli altri io, sicché l’intersoggettività sarebbe più originaria e fondante rispetto alla soggettività singola" (AA. VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981, p. 884).

Interessante, nel contesto di un discorso linguistico-espressivo, lo sviluppo che tale concetto ebbe in Wittgenstein ("i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo"; Tractatus logico-philosophicus).

 

Sul versante più propriamente estetico possiamo leggere:

"L’immaginazione creatrice di opere d’arte non rifugge dalla realtà, anzi la penetra, ne coglie l’aspetto che l’identifica col modo di sentire dell’artista, e quindi rivela ciò che della realtà si sottrae alla conoscenza della ragione. […]. Ma fino a che l’artista è immerso nella sua esperienza sensoria o sentimentale, egli non crea arte. Egli deve uscirne, deve distinguere se stesso dal mondo dei suoi sensi e dei suoi sentimenti, deve contemplare quel mondo: allora, e allora soltanto, egli entra nel mondo dell’arte. Compito dell’immaginazione è di creare una forma, forma essendo l’ordine mentale assegnato all’esperienza sensoria e alla vita del sentimento. È nella forma che noi riconosciamo il segno dell’attività mentale, il trascendere della semplice vita, l’atto distintivo della creazione. […]. Ogni opera d’arte è allo stesso tempo concreta e astratta. È concreta perché il suo contenuto appartiene al mondo della natura e della vita, è astratta perché la sua forma è il risultato di un distacco mentale dal mondo concreto" (L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, 1974, pp. 24-6) .

 

Suggestiva la figura dell’Eremita nei Tarocchi: « circospetto "tutore" di un sapere acquisito con discrezione, […] il misterioso artista che sogna i tipi è il tessitore della trama immateriale permanente sulla quale viene ricamata la configurazione transitoria delle apparenze, il cospiratore che si isola dal presente per creare virtualmente forme pronte ad oggettivarsi » (O. Wirth, p. 508; cfr. anche G. Bergamaschi, Tarocchi: litterae laicorum e sistema di memoria, in Per una storia della semiotica: teorie e metodi, Palermo, Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, 15-16, 1980, pp. 501-510).

 

Secondo Aristotele, quando la sensazione è in atto, l’immaginazione ne è come soverchiata e repressa; la sua attività emerge invece quando il frastuono della sensazione tace, come nel sonno, e questo spiega le visioni che si hanno in sogno (Sogno e veglia, III, 461a 2 sgg.).

 

Ad ogni accusa di "follia" mossa contro una visione produttivamente solipsistica della riflessione estetica, si potrebbe in ogni caso replicare, con il pirata Long John Silver, che, come lo scrivere, anche il suonare è necessariamente "un mestiere solitario, ancora più solitario […] che vivere, e so di cosa parlo" (B. Larsson, La vera storia del Pirata Long John Silver, Iperborea, p. 408) o, decontestualizzando Pennac, che la "virtù paradossale" della musica "è quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso" (D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, p. 14).

 

D’altronde, persino delle poetiche apparentemente tutt’altro che solipsistiche alla fine tali sono, se pensiamo che conoscere e capire sono pur sempre un "interpretare" (per "comprendere"), e dunque un costruire dentro di sé delle rappresentazioni del mondo e degli altri:

"Se sei interessato all’improvvisazione, devi sapere che esiste una grande tradizione lasciata da molti. Se hai dodici o tredici anni e decidi di diventare un musicista jazz, hai davanti a te un lavoro serio da svolgere. […] devi tornare indietro al 1900 e iniziare ad analizzare tutto questo, senza necessariamente imparare a suonarlo, ma cercando soprattutto di capire perché le cose sono andate così. È quello che penso io. Quindi per andare avanti devi avere una conoscenza completa della tradizione [P. Metheny]" (in L. Viva, Pat Metheny, Franco Muzzio Editore, 1989, p. 12).

Anche se lo stesso musicista può affermare poco più avanti che ha "imparato a suonare suonando con altri musicisti, e questa è la via migliore. Non penso che necessariamente si frequenti una scuola per quattro anni e poi si diventi un buon musicista. Si impara esercitandosi, suonando. Le scuole sono comunque utili, danno informazioni di base che ogni musicista deve conoscere, come la teoria, l’armonia e tutte quelle cose specifiche che possono essere insegnate. La via migliore è andare in qualche scuola e soprattutto suonare moltissimo" (in L. Viva, op. cit., p. 28).

 

 

16. Il peso di una sei corde

Un paio di giorni fa, durante un concerto in duo con un valente contrabbassista, ho utilizzato la mia superleggera Yamaha (strumento ideale per i discopatici).

Poi, siccome devo cercare di non far fuori troppo presto le "speciali" corde che vi monto (praticamente introvabili), una volta a casa l’ho immediatamente riposta nella sua custodia, per sostituirla con un’altra fino al momento in cui la riesumerò per una nuova performance.

Quale chitarra "schermo", ho rispolverato la mia "antica" Tele.

Pesantissima! Body in legno veracemente massiccio.

Lunga e inconcludente la diatriba fra i sostenitori delle chitarre superleggere, leggere, di quelle dal medio peso e infine di quelle pesanti o pesantissime.

È luogo comune oramai consunto che più pesino più siano buone.

Personalmente, non credo che la questione si possa risolvere su una qualsiasi stadera.

Innanzitutto, è importante avere almeno una vaga idea riguardo a ciò che da una chitarra si intende ottenere, e allora una sarà preferibile all’altra.

Però, questa Tele tutto sommato non funziona male...

Le ho aggiustato l’action, che ora mi sembra ottima, e ho provato a cavarne qualcosa. Risponde bene.

Sarà il caso di riflettere un po’ su questa faccenda.

In ogni caso, resta per me assodato che una chitarra dal "corpo" leggero non si fa proprio sentire e dunque permette di volare con maggior facilità.

Come in una sorta di levitazione musicale, una volta dimenticato, nell’estasi, il peso della materia.

Davvero problematico farlo con uno strumento che ti tortura la spalla sinistra per ore o che, seduto, ti pigia gambe, tagliandotele.

 

 

17. Dobbiamo suonar la chitarra che ci è toccata in sorte…

 

Stamattina, cercando in un negozietto bresciano delle corde scalate secondo una mia personale calibratura, ovviamente senza trovarle (dal momento che i gusti dei più giovani sembrano oggi procedere in tutt’altro senso rispetto al mio), mi sono soffermato a "tastare" l’action di una tra le chitarre esposte in vetrina. Praticamente perfetta! E che voce!

Ai nostri tempi non era così facile imbattersi in uno strumento ideale.

Oggi, ogni chitarra può essere quella dei nostri sogni: basta comprenderne un poco la "natura".

Quella, comunque, era un "pezzo" davvero facile da amare.

L’occhio mi è andato automaticamente (e un po’ anche curiosamente: chissà quanto poteva costare un miracolo del genere…?) al cartellino del prezzo: 256 € .

Soltanto!

Me ne sono complimentato con il titolare del negozio.

Si è dichiarato assolutamente d’accordo con me.

 

18. Da una mail all’amico Riccardo F.

[…]. Quanto alla "chitarra dal timbro caldo e dolce", sappi che le ho provate tutte, e quelle che mi han deluso di più sono state proprio le Gibson, secondo me ingiustamente considerate le "regine" del suono soft e jazzato.

Iniziai a dieci anni con un’ascetica Eko, poi a diciassette [dopo una nipponica HB] acquistai una Telecaster Fender (che posseggo tuttora): niente male. Da allora ne ho avute altre, fino all’ ‘83, quando per novantasei lune appesi il mio strumento al chiodo giurando che non l’avrei mai più ripreso in mano.

Oh, se mi sbagliavo!

Oggi suono con una passione che a quel tempo neppure lontanamente avrei potuto immaginare.

Quali sono le chitarre che utilizzo? A parte la Tele, che mi dà un’armoniosissima vocina alla Stern, amo da matti una splendida Epiphone Emperor, capace di regalarmi un caldo suono alla Pat Metheny, come non mi dispiace un’Ibanez acustica dal suono tondo tondo, ma anche scarno e deciso alla John Scofield, oltre che da pianoforte stagionatissimo un po’ alla Joe Diorio, ecc.

Ma lo strumento che in assoluto preferisco, e da cui non riesco proprio a star lontano, è un’umilissima Yamaha (costo: appena 600 euro) sputata fuori da una catena di montaggio a Taiwan, sotto l’occhio qualunque di tecnici qualsiasi, tutta nera, un solo microfono alla base della tastiera più un piezoelettrico che però non utilizzo, anche se ne varrebbe la pena. Questo modestissimo e frettoloso manufatto mi dà esattamente l’acceso, chiaro ed espressivo suono che esattamente voglio, e che non somiglia a niente che io abbia mai potuto udire da altri. Un rebus davvero "zen"!

Ci ho lavorato molto, però.

Ho regolato a puntino i capotasti, la curvatura del manico e quindi l’action, ho individuato l’esatto calibro delle corde (zigrinate) per lei ideali (010/042) e il tipo di plettro giusto per quel genere di corde.

Poi ho suonato, atteso, suonato, atteso, suonato ancora e ancora atteso fino a che il volgarissimo legno compensato da quattro soldi che costituisce la sua cassa armonica fermentando non si è rigenerato, e l’iniziale, acre e secco suo odore non è divenuto un altro: dolce, aromatico, profondo e confortevole.

Inutile dirlo, al nuovo profumo è corrisposto un suono completamente diverso. Esattamente quello che cercavo da sempre.

A volte penso: e se dovessero rubarmela, che cosa farei, dove potrei trovarne una uguale? E se la donna delle pulizie inavvertitamente la facesse cadere? Anche strangolandola, non potrei mai più riavere la mia dolcissima taiwanese...

Qualche sera fa ho tenuto un concerto in duo con un contrabbassista (formazione per me ideale) presso un eccellente auditorium del ‘600. Composizioni mie. Di questi ultimi mesi. Acustica perfetta. La mia taiwanese ha dato il meglio di sé. Da non crederci. Un invisibile Polytone Mini Brute (80 watt), una chitarra e un contrabbasso (anch’esso amplificato appena un po’ da un essenziale Polytone 100 watt). Nessun pedale, nessun effetto. Meraviglioso!

Cerca la "tua" chitarra, senza fretta.

Acquistane una qualsiasi e lavoraci pazientemente.

Prima o poi, quella sarà la "tua" piccola e dolce taiwanese...

 

 

19. Qualche "foglietto della spesa" sulla chitarra e la sua vita all’aria aperta

 

1.

Che senso ha, in casa, ogni volta, dopo aver suonato uno strumento, riporlo meticolosamente in una custodia (gabbia), asettica, umidificata a puntino, isolata da ogni ambiente esterno?

La protezione può valere unicamente durante gli spostamenti (da casa ai diversi possibili luoghi performativi: studio, sala da concerto, club, ecc.).

Personalmente, ho sempre lasciato che le mie chitarre respirassero a pieni polmoni l’atmosfera circostante, ovunque, a volte persino in condizioni di dubbia sicurezza.

Gli strumenti sono esseri viventi e per questo vanno esposti, certo tenendo conto di alcune particolari situazioni che per la loro stessa gravità potrebbero rivelarsi incorreggibilmente fatali.

Scrive la psicologa Alba Marcoli ("Crescere con i figli di favola in favola", in Policromie, n.1, marzo 2004, p.18; www.associazioneintermedia.it):

 

«Quando il maestrale sta per "entrare" sulla terra, lungo la costa occidentale della Sardegna, si annuncia cantando all’orizzonte. […] domina incontrastato su tutta la natura, la spiaggia, le rocce, le case degli uomini, le persone, gli animali, le piante. E queste ultime, docili, seguono il suo percorso piegandosi per tutto il tempo secondo la sua direzione, fino a quando anche "quel" maestrale sarà infine cessato. […]. Ma se una pianta giovane è colpita continuamente dalle maestralate senza avere un riparo che la protegga, con il passare del tempo comincerà a piegarsi sempre più fino a non riuscire più a rialzarsi: crescerà solo nella direzione opposta al vento, un albero ripiegato su di sé per potersi difendere. Avrà così fatto contemporaneamente due cose: si sarà difeso, trovando fortunatamente una strategia di sopravvivenza anche alle maestralate più forti, ma avrà contemporaneamente tradito il progetto di vita iniziale che era scritto nel suo seme o nel suo bulbo o nella sua talea e che era probabilmente quello di crescere più o meno diritto o quasi verso la luce del sole e non piegato verso terra.»

 

2.

Gli strumenti musicali (specialmente quelli costituiti da materiale organico: legno, corazze di poveri animali, membrane, ecc.) non vanno tenuti sotto una campana di vetro.

 

3.

D’estate, in Sicilia: la mia chitarra esposta, come Ettore Majorana, allo scirocco e alla salsedine.

Qualcuno, anni fa, mi raccontò di come persino Jaco Pastorius avesse affidato per mesi un Precision Fender fretless alle salmastre umidità.

Ereditato, alla morte del grande bassista, dall’amico Pat Metheny, quel magico strumento miseramente concluse un brutto giorno la propria ufficiale vicenda tra le mani d’un ladro.

 

4.

Parecchi strumenti non vengono affatto riposti in alcun fodero o custodia o bacheca: pianoforte, batteria, percussioni, timpani.

Fortunatissimi!

 

5.

La mia taiwanese, nera e superleggera, emanava inizialmente un odore a dir poco sgradevole, forse dovuto agli scadenti materiali che la "costituivano" o più probabilmente al tipo di adesivi utilizzati durante la sua fabbricazione.

Dopo qualche anno di vita all’aria aperta, al fumo della pipa o dei miei toscani (ora non fumo più), agli aromi degli ottimi primi escogitati da me o da mia moglie, si è talmente evoluta e trasformata da regalare, ora, fragranze incomparabili.

Cosa può essere accaduto, chimicamente parlando?

 

6.

Gli strumenti, i vari tipi di legno, sono realtà vive: hanno bisogno di "respirare" (persino l’umidità e il grasso di una pastasciutta, standosene per un po’ in cucina).

 

7.

Accade anche a noi esseri umani: maturiamo solo affrontando coraggiosamente l’esistenza nella sua viva concretezza (à Ungaretti: E subito riprende…), mica avvolti nella bambagia!

 

8.

Gli strumenti vanno lasciati all’aria aperta, ma non dimenticati, abbandonati. Vanno suonati regolarmente, ripuliti dalla polvere eccessiva. Non vanno lasciati sotto un acquazzone, naturalmente, ma devono farsi le ossa. Hanno bisogno del sudore, della pressione delle dita di un buon chitarrista… del contatto umano, insomma.

 

9.

Ogni strumento può divenire "Perfetto", anche se di primo acchito (al momento dell’acquisto) non sembra esserlo affatto.

Cioè: può comunque conseguire la sua "Buddhità".

 

10.

Un certo episodio televisivo della serie Il tenente Colombo alla fine mi risultò indigesto, tanto era sofistico. Vi si sottilizzava noiosamente circa gli enormi, imperdonabili guai causati a vini di pregio da una rapidissima e, secondo me, insignificante escursione termica locale.

Al contrario, qualcuno mi decanta spesso le insospettabili e ineguagliabili qualità di una certa damigiana di Barbera, dimenticata per più di un’estate sotto il sole, nei pressi di un portico.

Pietosa illusione: credere di poter controllare, orientare, dominare, pianificare l’inconoscibile, imponderabile vita.

 

11.

… e poi mi deve stare accanto, a stretta portata di mano.

Quei tre minuti necessari per scovare la custodia da qualunque suo loculo, aprirla e tirarne fuori lo strumento mi sono stati spesso fatali.

Le illuminazioni non attendono.

Occorre essere capaci della fulmineità di un’istantanea per poter sigillare il momento di grazia, della più felina agilità di ricerca, esecuzione e scrittura su pentagramma (o registrazione) per riuscire a bloccare almeno quanto basta l’irripetibile e fuggentissimo Attimo dell’ispirazione.

Riporre la chitarra nella sua "cassa" VS tenerla sempre accanto, en plein air (impressionisticamente): due visioni filosofiche davvero antitetiche e inconciliabili, in fatto di musica.

 

 

20. Mike Stern

 

È fuori discussione il fatto che Mike Stern accarezzi, "tocchi" (dallo spagnolo tocar = suonare) la chitarra con amore, con infinito e forse eccessivo amore. Con estrema delicatezza, con autentico affetto. E si vede che ce la deve avere proprio buona con quella sua Tele, capace di una tale "vocina"… Tanto da non cambiarla mai, da non separarsene mai.

Non conosco una sola foto (a partire da un certo anno) in cui assieme a lui non appaia quella chitarra, nessuna immagine in cui egli non stia accanto o addosso a quella particolare Tele, o non la stringa fra le dita o non la circondi avvolgente con un braccio.

In un album del ‘94, Is what it is (È quel che è) sembra quasi che il romantico chitarrista si rilassi, durante un break d’invernale session, comodamente sistematosi tra la moquette del pavimento e il legno della parete, davanti al fuoco di un caminetto (sappiamo bene con quanta cura siano arredati e resi confortevoli certi studi di registrazione USA). Ce lo fanno immaginare le calde tinte dell’insieme. Inscindibile da lui, alla sua sinistra, mano del cuore, anche una Tele riposa quieta e, direi, "fedele".

Strumento dalle dimensioni decisamente contratte (ovviamente, nel solo body) rispetto alla maggior parte (forse la quasi totalità) della sue parenti.

Ne posseggo una anch’io, e suppongo abbia più o meno la medesima età di quella contemplata e riverita da Stern (non ho condotto studi particolari al riguardo: preferisco sognare). Che poi si iscriva in vario modo e misura all’interno dell’una o dell’altra tra le vicissitudini di casa Fender, francamente lo ignoro (per la chitarra di Mike, invece, cfr. qui sotto la scheda tratta dalla rete). Ho sempre tollerato con troppa pazienza, e alla fine con indifferenza, ogni disquisizione tecnicistico-finanziaria relativa a tale specifica materia, e ve ne sono già troppi in giro di sapientini che di cose ne sanno o ne immaginano o ne millantano riguardo alle vere o presunte beghe interne alla celebre dynasty, e dunque ai loro risvolti sul piano dell’expertise-valutazione di ciascun singolo "pezzo storico".

A me interessa unicamente il suono, e oggi riprendendo tra le mani la mia Tele ho riconosciuto esattamente la "vocina" che posso udire ogni volta che mi sintonizzo su qualche delicata esecuzione di Mike.

Che questi ami il proprio strumento lo si può capire a chiare lettere fin dalle prime note, ma se ne trae la più assoluta conferma all’ascolto di tutte le sue cose. In questo, Stern costituisce un modello di rara coerenza, anche se qualcuno recentemente ha ritenuto di dover rilevare nelle sue ultime performance, soprattutto dal vivo, una qualche stanchezza e un certo calo di "concentrazione jazzistica". Qui val forse la pena di ricordare come lo stesso Miles Davis, dovendo scegliere tra i due, optasse senza alcun indugio per John Scofield sulla base di una motivazione praticamente identica.

Il chitarrista denota inoltre un’emotività spesso (regolarmente) disponibile a sfruttare le tinte estreme e contrapposte della propria tavolozza: dall’assoluta soavità, quasi melensa (romanticheggiante, romanesque), egli trascende, talora in modo abrupto, fino alla piena, aperta aggressività (che è sempre amore) del suono lungamente distorto, sempre più teso in direzione dei registri superacuti.

Eppure, quanta tenera malinconia (cfr., sopra, 5. Musica, narrazione e "tristezza") nella maggior parte delle sue cose… Quasi "rinascimentale" (tempus fugit, "tutto passa"), astrologica.

Questa particolare atmosfera regna con una tale costanza in ogni sua composizione-esecuzione da potersi addirittura convertire sfavorevolmente, in area di verdetto: Stern è forse un po’ monotono, ripetitivo, noiosamente uniforme, languido e stancante, privo di autentica creatività?

Certamente gioca in tal senso quel suo caratteristico suono, indiscutibilmente "bello", ma alla lunga estenuante. Così dolce, così intenso.

Stern espone/svela sentimenti e contenuti con approccio troppo diretto, deciso, leggibile, senza chiaroscuri o estetiche ambiguità, ed è forse proprio l’assenza di quest’ultimo tratto ad agire, in ultima analisi, da decisivo elemento accusatorio. Hai la spiacevole impressione di avere a che fare sempre con una medesima e uguale persona, tutta d’un pezzo (qualità/difetto), quando invece, forse, l’"uomo" è "plurale" (ed è bene che lo sia).

L’aver cercato e conseguito un sound tanto tipico da renderlo riconoscibile tra mille, e dunque inconfondibile, non perfettamente clonabile (cfr. Il limite come fattore di stile), finisce alla lunga per rivelarsi, nel chitarrista statunitense, soluzione per nulla facile da gestire.

Ma qual è esattamente il sound di Stern?

 

Appena un dettaglio.

Anche Mike (cfr. il mio La "formazione del suono" nella chitarra jazz, al paragrafo Uno sguardo a "destra") utilizza con scrupolosa attenzione, ma assai spontaneamente, il contatto sfiorante del pollice sulle corde all’altezza dell’imbocco della tastiera, al fine di smorzarne l’eccessivo volume di risonanza, ovvero per ottenerne delle sonorità oltremodo delicate ed espressive, talora lievemente slapping, nel conseguente e sottile esito armonico.

Per tutti gli altri e svariati aspetti caratteristici del suo stile occorrerebbe almeno un articolo a parte, oltre che una buona dose di capacità empatiche. Come dire: per comprendere a fondo Stern è necessario mettersi nei suoi panni, avvertire sulla propria pelle quel suo speciale modo.

Fu il metodo dei connaisseur nel campo delle arti figurative, e ora, sul modello del "puro visibilismo", si potrebbe suggerire, per l’analisi musicale, una sorta di "puro udibilismo": me che brutta espressione, però…

 

Mike’s guitar features a custom made Tele-style body by Michael Aronson with an original ‘50s Fender Broadcaster neck. The pickups are a Seymour Duncan P.A.F.-style humbucker in the neck position and a Bill Lawrence single coil in the bridge. Strings are .011-.038 nicklewounds. (This guitar replaced an original ‘50s Tele which originally belonged to bluesman Roy Buchanan and was sold to Mike by the late Danny Gatton in 1975. It was stolen from Mike in an armed street robbery in Roxbury, MA before Mike cut his first album as a leader.)

The guitar is run into a pedalboard containing a Boss Distortion, Boss Octave and two Boss Digital Delay pedals. A Yamaha SPX-90 rackmount unit is used for a subtle Pitch Shift creating a chorus effect.

Mike uses two solid state amps in stereo: a Yamaha G-100 combo with two EV 12"s and a Pearce GR-1 head into a Hartke 4x12 cab with four JBL cones.

 

21. Un tantino fragile…

 

La mia taiwanese è forse un po’ "fragile"?

A volte sembra sufficiente che qualcuno vi urti appena un braccio, o che Madame La Guitare (sul modello di Monsieur Le Chat; cfr. Michèle Demai, Alaska Dream, Magenes Editoriale, 2003) viaggi un poco scomoda nella mia auto mentre con lei mi reco da qualche parte, o che l’aria si faccia appena un po’ più umida o più asciutta o più calda o più fredda, a far sorgere in me la fastidiosa ossessione che il delicatissimo equilibrio di uno strumento tanto sensibile si sia misteriosamente incrinato, che l’action non sia più la stessa, e che di conseguenza anche l’accordatura, la sua fine precisione sia andata a farsi fottere, e niente sia più come prima.

Può essere, o il problema sono io?

La mia chitarra… è una mia proiezione?

 

 

22. Storia e non storia di "My one and only love"

 

Nell’affrontare il rapporto fra tema e improvvisazione, perché dovrebbe interessarmi conoscere l’autore della composizione e le sue intenzioni?

In fondo, quel che conta è ciò che su quel tema e su quelle armonie riuscirò ad elaborare in fase di improvvisazione.

Utilissima mi pare invece la conoscenza del testo, che nel nostro caso è di Robert Mellin:

Il gran
pensiero di te

fa  cantare il mio cuore
come una brezza d’aprile

sulle ali della primavera,
e tu vieni a me con tutto il tuo splendore,

mio unico e solo amore.
[…]

Il tocco della tua mano è come cielo per me,
un cielo che non ho mai conosciuto.
Il rossore sulla tua guancia,

ogni volta che parlo,

mi fa capire che sei mia.
Tu riempi il mio cuore ansioso

d’un tale desiderio,

e ogni bacio che mi dai

accende la mia anima.
Dolcemente mi arrendo

al mio unico e solo amore.

Circa il rapporto che inevitabilmente viene a crearsi tra chitarrista e testo verbale sotteso ad un certo song, si confrontino, ad esempio, le dichiarazioni di F. Cerri e J. Hall (in "Narrative Guitar" VS Tecno-automatismi, 8.1).

Rispetto al testo verbale, il "discorso" (da discorrere = "correre qua e là") chitarristico, soprattutto in quanto narrazione, si pone anche quale "sistema di significazione successivo", ulteriore, e forse parallelo, instaurato "parassitariamente" (U. Eco, Trattato di semiotica generale, 2.3, "Denotazione e connotazione") sulla base del primo, il quale ha invece carattere denotativo. Insomma, costituisce una semiosi connotativa.

 

23. "La chitarra parla, la chitarra racconta"

 

Aspetto puramente materico-acustico-sonoro-musicale della lingua inglese, specie per chi non la conosce affatto.

La pura voce di Phil Collins: che cosa evoca in fondo, cosa suggerisce all’ascoltatore, che cosa denota e connota, prima ancora d’ogni esatta, e sempre deludente, traduzione del testo verbale localmente interpretato?

La chitarra: come una lingua di cui non si conoscono bene (e dunque non si sanno esattamente tradurre, decodificare, comprendere con esattezza, interpretare univocamente) le "parole".

Qualcosa "passa", però.

Ma cosa?

 

È notorio come nella narrazione assuma particolare risalto la dimensione materica, cioè la particolare modalità di "pro-nuncia" del suono; non tanto le astratte architetture musicali, melo-armonico-ritmiche, quanto piuttosto il personale ed inconfondibile "stile" di ciascuno (cfr. Il limite come fattore di stile): il fisico rapporto delle dita con le corde, la qualità di queste, il loro preciso calibro, ecc. (cfr. La formazione del suono nella chitarra jazz):

 

Carissimo Ferdinando,

siccome nella tua precedente mail mi chiedevi se per caso avessi avuto qualche idea circa il progetto relativo ad un nostro possibile intervento musicale presso il tuo istituto [scuola media superiore], ti faccio sapere che da giovane, quando lavoravo al modo di Gino Stefani, insigne semiologo e antropologo della musica, conducevo un po’ ovunque numerosi incontri di animazione e sensibilizzazione al fatto musicale, mediante ascolti e pratiche di vario genere, coinvolgendo in prima persona il pubblico nella produzione democratica del "significato", a partire da una ben organizzata serie di sollecitazioni musicali, indifferentemente classiche o moderne.

Ora, tutta quell’esperienza non è andata perduta, anzi si è arricchita e consolidata, da un lato grazie alla ripresa da parte mia di un’attività musicale per molti anni interrotta, dall’altro attraverso la messa a punto di strategie via via più calibrate ed efficaci di mediazione didattica di determinati contenuti che altrimenti risulterebbero davvero ostici per dei ragazzini di scuola media inferiore. Avere a che fare con loro ogni santo giorno aiuta a semplificare in modo salutare le strutture del proprio linguaggio e pensiero, a restare in un certo senso "giovani" (se è vero, come scrive Umberto Eco, che l’insegnamento rappresenta la migliore assicurazione contro l’Alzheimer) e comunque a risultare irresistibilmente coinvolgenti per chiunque ci ascolti.

Perciò, la mia proposta di intervento musico-didattico potrebbe essere racchiusa nel seguente titolo: "La chitarra parla, la chitarra racconta...".

Da lì si potrebbe passare senz’altro a tutta una serie di provocazioni all’ascolto (di musiche eseguite da me/da noi) e all’attiva coscientizzazione/produzione di "senso" (nell’accezione bruneriana) attraverso cui il giovane ascoltatore possa tornare a riappropriarsi, entusiasticamente, di parecchi dei livelli (che gli sono stati sottratti) di fruizione ed elaborazione personale/creativa del fatto musicale: nel nostro caso, innanzitutto chitarristico.

L’intera faccenda verrebbe gestita in tutta tranquillità, senza la pretesa di voler bruciare i tempi necessari e soprattutto privilegiando l’aspetto qualitativo-formativo dell’evento, in senso non solo chitarristico-musicale, ma anche e soprattutto cultural-generale.