"Il sogno di Inga"

 

Narrare "mondi interiori" arpeggiando a parti più o meno late

 

di

Gianni Bergamaschi

 

"Fin da giovane ho intuito che l’uomo si sviluppa per sottrazione, e sono stato puntualmente dominato dall’impulso di andare a vedere chi sono al di là di quel che ho. Ciò che ho perso, l’ho perso; ma quando mi capitava di non perdere nulla, ero afflitto da potenti paure e fantasie coattive di perdere quello che avevo. Tuttora le mie angosce di fallimento esistenziale mi portano sempre lì: Chi saresti se ti togliessi questo? E se ti togliessi quest’altro? E se ti togliessi quest’altro ancora? Chi saresti allora? Qual è il tuo carburante esistenziale? Da cosa trai il piacere di vivere?"

 

[Francesco Liberati, psicologo e psicoterapeuta]

 

 

 

0. Metacognitive mail ad amici

 

A R. F.

 

[…] sto attraversando (attraversando?) una fase (fase?) piuttosto singolare (singolare?) per me. Qualcosa mi sta cambiando (cambiando?) profondamente, e io resto lì semplicemente a guardare, "calmo e limpido"...

Alla chitarra elettrica sempre più vado preferendo l’acustica (chissà per quanto?), e alle melodie/armonie più o meno usuali e siglabili, ovvero complesse ed inconsuete, il puro arpeggiare.

Immobile, eseguo per ore soprattutto arpeggi a parti late (*) su "prese" dallo struggente fascino contemplativo, ma non so se racconterò mai, ad esempio in un saggio, l’esperienza che sto vivendo e, francamente, mi piace assecondare/osservare con una sorta di malinconica tenerezza.

Che cosa sta accadendo in sostanza? Vado "mollando la presa" con la più disarmante naturalezza, ammetto/accetto di "perdere", mi alleggerisco di un mucchio di zavorra e (persino nel mio lavoro, a scuola) sempre più "programmo per sottrazione".

Invecchio, e finalmente penso anche un poco a me, al mio tempo...

 

(*) Gli "arpeggi a parti late", secondo la limpida benché succinta definizione distillata da Luca Colombo in Guitar Club (n. 10, ottobre 1999, p. 66), sono "disposti melodicamente con intervalli non consecutivi tra loro". In tal senso, se in un arpeggio di Cmaj a parti "chiuse" gli intervalli sono N.f., 3M, 5P, nel corrispondente arpeggio a parti "late" potrebbero essere N.f., 5P, 3M.

La composizione (Il sogno di Inga) proposta in appendice al presente saggio è, ad esempio, in buona misura costruita su arpeggi a parti late, fin dal primo "accordo" (A13), le cui componenti armoniche risultano essere, nell’ordine, N.f. , 5, 6, – 7 , 9, e dunque non sempre intervalli rigorosamente consecutivi fra loro.

Esistono poi determinati tipi di "scale", e dunque sequenze intervallari "ordinate" e "melodiche", a cui, di fatto, più d’uno degli "arpeggi a parti late" utilizzati ne Il sogno di Inga appaiono ampiamente sovrapponibili. Per fare un solo esempio, il G6/9 del Modulo 7, costituito da N.f., 5, 6, 8, (3), coincide in buona parte con la Pentatonica Maggiore, I Modo, di G.

 

 

A F. T.

 

Comunque, vado stendendo di tanto in tanto, non si sa mai, qualche pagina di appunti sull’arpeggiare alla chitarra acustica quale "macchina meditativa". Mi illudo ancora di poter utilmente scavare dentro me stesso (d’altronde, lo faccio da una vita), ma poi non so se avrò voglia di produrre qualcosa, di condividere o socializzare alcunché di tutto questo.

Accade che sempre più io mi ritiri nel mio immaginario privato, che sa un po’ di belle fiabe, di candide illusioni, di semplice e pulito affetto…

La chitarra acustica degnamente colora le mie più quiete solitudini.

 

 

Ad U. M.

 

Quanto a me, sto salpando per un aspro viaggio nel mondo dei "più sofisticati arpeggi".

Siccome gli esiti tecnici, catartici ed emotivo-rapprensentativi mi appaiono già sufficientemente interessanti, forse ne renderò conto (se non sarò anzitempo sopraffatto dalla sempre più schiacciante evidenza che ogni comunicare è vano) in un 13° saggio per l’ADGPA, nell’illusione che l’approccio in questione sia per molti versi davvero originale e che dunque il mio lavoro possa risultare utile o anche semplicemente stimolante per qualcuno.

In poche parole, si tratta di suonare per intere ore in distesa libertà, esclusivamente declinando e coniugando arpeggi di vario genere e forma, in un clima di fissità meditativa che quasi si direbbe "tibetana".

Chissà dove mi porterà questa nuova avventura?

 

[…] la musica che vado suonando "si fa da sé".

Dunque, non v’è ragione che io insista con impazienza sul pedale dell’acceleratore..

Nello contempo "va scrivendosi", quasi alla stessa maniera, anche una sorta di filosofia arpeggiale (e relativa meditazione).

Certo, sto concretamente allontanandomi da parecchie cose, che non valgono la pena di alcun coinvolgimento (tutto mi appare falso, artefatto: come in un unico, planetario complotto), e allora la mia "affettuosa" acustica oggi rappresenta, per me, la magica "porta" verso quella misteriosa dimensione che mi piacerebbe essere in grado di suggerire ad altri, quantunque per pure metafore.

Determinate esperienze non ammettono "parole": "note", sì.

 

Il viaggio nel mondo dei "più sofisticati arpeggi" di cui ti parlavo qualche mail fa procede speditamente (ne ho annotati circa 60, stupefacenti! Posizionando ciascuno su almeno cinque differenti altezze ideali, fanno 300: diciamo… una cinquantina di meravigliose colonne sonore per una vita che va cambiando), e si accorda perfettamente con quel progetto di pianificazione "per sottrazione" di cui ti ho già detto: dunque con il mio più recente e spudorato bisogno di tornare a me stesso, ai miei più vicini affetti, al mio orologio profondo, a quel poco che semplicemente posseggo (e che mi basta), ad un’ecologia mentale che sia un po’ più rispettosa anche della mia piccola persona.

L’arpeggio è terapeutico.

Almeno quanto la mia incantevole chitarra acustica.

 

Te ne invio una foto in allegato.

L’ho "sorpresa" mentre posa nel suo ambiente più congeniale, il mio studio, fra pareti di libri e tutto il resto con cui ho abitualmente a che fare.

Anche l’occhio vuole la sua parte: tonalità calde, con l’andar del tempo sempre più "tabacco" o creole, vellutate, intime e avvolgenti. Corde flat e "umane": peccato che per trovarne di buona qualità si debba fare il giro del mondo... Se mi va bene, mi basta viaggiare tra Brescia e Milano.

Ogni volta che la suono, vagheggio, tra l’altro, un raccolto concertino nella mia San Benedetto (o, perché no?, nella tua Grottammare), magari sotto Natale, mentre sono laggiù... un altro momento di perfetta simbiosi fra le mie musiche e qualcuno dei tuoi intensi "temi" fotografici... giusto le ultime cose che ho scritto (un’oretta e mezzo: cinque o sei belle melodie narrative che ancora non conosci, oltre ad un’infinità di "sequenze tematiche" arpeggiate... da pelle d’oca. Sarebbe esatto dire che loro hanno composto me... o, semplicemente, si sono composte da sé, e io non c’entro nulla, se non come canna vuota che, in determinati e fortunatissimi satori, s’è lasciata docilmente attraversare…).

 

Stamattina voglio cominciare ad occuparmi del mio saggio sugli "arpeggi diabolici" (come tu stesso li definisti, quella volta in cui ti scaldarono un gelido dicembre), o meglio surrealisticamente "automatici".

Si tratterà appena di mettere assieme in modo leggibile una ventina di paginette buttate giù di corsa nel portatile. Chissà se ci riuscirò entro tempi ragionevolmente brevi? Poi, quando avrò terminato l’intero lavoro, te lo spedirò.

Giuro che stavolta sarò comprensibile...

 

 

A F. L.

Mi è molto difficile porre mano alla stesura di questo nuovo saggio, forse perché, parlando di musica o di chitarra, ora dovrei dire soprattutto di me, della mia vita, della visione che ho dell’esistenza, della particolare piega che essa da qualche tempo va prendendo, delle mie concrete esperienze con fatti e persone… cosa che in questo preciso momento non ho esattamente voglia di fare: per una sorta di accresciuto istinto di segretezza, misto ad una sempre più malinconica percezione della sostanziale "insignificanza" di ciascuno di noi per gli altri... A chi vendere, dato l’attuale stato del mondo, ciò che siamo o facciamo o scopriamo o cerchiamo…?

Si tratta come di un "ripiegamento morale" su un orizzonte breve, confortevole e sicuro. Per me… la mia acustica: qualcosa per pochi intimi, come forse ti ho già scritto in una precedente mail, tempo fa.

Ed è con questa intenzione che me la porto dietro ovunque, comodamente rannicchiata fra i sedili anteriori e quelli posteriori della mia auto, via via mettendovi alla prova i risultati (benché talora acerbi) delle più recenti riflessioni.

Ad esempio, durante una serata in Val Sabbia, presso il Cinefoto Club di Vobarno: pubblico di fotoamatori, assai ben disposto nei riguardi della musica, folto, sì, ma non da stadio; soprattutto, di qualità. Di quelli che non disdegnano affatto quattro intelligenti chiacchiere a fine performance o qualche buona battuta "parigina"… che stuzzica, provoca, ma anche gratifica, incentiva ed invita ad andare avanti. Di quei pubblici che sanno cogliere nel segno con le loro eloquenti e vivaci reazioni.

 

[…]. Ritengo che l’umanità, oggi, non abbia per nulla bisogno di mera intelligenza tecnico-tecnologica, o meglio, di altra (ulteriore) "intelligenza". Quella che c’è può benissimo bastare.

È la volontà che invece manca: l’intenso e consapevole desiderio di cambiare veramente le cose.

Lo slancio affettivo, l’emotività.

A cosa possono servire ricerche e scoperte, se poi nessuno dimostra una reale intenzione di servirsene per un concreto avanzamento della condizione comune?

Anche nel saggio che vado scrivendo vorrei, particolarmente attraverso i passaggi narrativo-autobiografici, a carattere riflessivo-esistenziale, comunicare l’idea che a interessarmi non è propriamente la semplice e pura ricerca, ma sono soprattutto le radici profonde, affettive, emotive di una certa indagine che sembra farsi da sé.

E poi, una didattica priva di "amore" che didattica è?

Nessun egoistico interesse, dunque, o desiderio di personale tornaconto è a priori iscritto nel mio lavoro, come invece di frequente accade altrove. Nessuna brama di gloria.

Pazientemente assemblerò le varie parti di questo saggio che infine pubblicherò solo quando esso stesso mi apparirà "naturalmente" pronto, e quasi da sé supplicherà di poter vedere la luce.

 

A M. V.

 

[…] ti scrivo perché da qualche tempo, dopo essere tornato all’acustica (per non so quale bisogno di calore e intimità, è la mia preferita: una genuina Ibanez ben selezionata, dal suono caldo e disponibile ad una morbida action che, conoscendomi, potrai facilmente immaginare), sto riversando nel mio portatile una quantità di appunti in ordine sparso (a seconda delle intuizioni che in questo o quel frangente mi trovo misteriosamente ad agganciare) dedicati al puro e solo arpeggiare, considerato quest’ultimo secondo un’ottica che credo inconsueta.

Nello stesso tempo, vado componendo "brani" o, se preferisci (anche qui, conoscendo bene il mio pensiero), "narrazioni" musicali perfettamente autonome e compiute sotto ogni aspetto (melodico/armonico/ritmico): "diaboliche" o "surrealiste" (perché, "si fanno da sé") le definisce un mio curioso amico.

Qual è il problema, riguardo ad un possibile nuovo saggio? Non mi riesce di assemblare ed esporre in modo organico l’intero materiale.

Insomma, vorrei mandarti il tutto, ma non so come mettere mano a quell’operazione di discorsivizzazione che so necessaria affinché le mie intuizioni possano essere prese nella giusta considerazione anche da altri, oltre che da me stesso.

Mi servirebbe un incentivo, che so io?, un consiglio, un "fiat", chi mi dica che la cosa può essere interessante, qualcuno insomma che mi dia fiducia. Non so... non so come iniziare.

Attenderò ancora qualche tempo, per vedere se la matassa che ho in mano magari è in grado di sbrogliarsi da sé

 

 

Da M. L. a me e mia risposta:

 

M. L. : Adesso sto pensando: come posso affrontare il problema della velocità ? Che metodi scritti posso utilizzare ? La mia mente è confusa e probabilmente la risposta si farà desiderare, ma so che questo fa parte del jazz. Intanto mi studio arpeggi e scale.

G. B. : Ecco, ciò di cui mi sto attualmente occupando non ha nulla a che vedere con quanto invece interessa te: la velocità, le scale, il fraseggiare jazzisticamente sweeppando fra le corde, ecc. ecc. Tutto questo ora non mi riguarda affatto…

 

1. Lasciar fare…

 

Una sera, al termine di una fra le mie più "solitarie" e concentrate esibizioni, un distinto signore si avvicinò al piccolo palco con aria assai discreta per chiedermi quante ore al giorno sacrificassi alla "palestra", cioè alla sei corde, mostrandosi poi visibilmente spiazzato quando con assoluta franchezza gli confessai che raramente oltrepassavo la mezz’oretta, la mattina, prima di uscire di casa per recarmi a scuola.

E qui andrebbe dischiusa un’ampia parentesi che focalizzi, non tanto l’importanza del puro e meccanico esercizio fisico, quanto l’assoluta imprescindibilità di un’orientata ginnastica intellettuale, ovvero di un corretto atteggiamento in gran parte consistente nel lasciar fare alla mente/cuore (senza troppo intromettersi in quella sorta di occulto lavorio, di segreto, instancabile, spontaneo fermentare su cui in ogni caso potremmo ben poco), limitandoci a prendere semplicemente atto, a scadenze più o meno regolari, di quanto man mano dentro di noi va "costruendosi".

 

Poi, come dichiaravo tempo fa ad un collega, ciò che in tal modo pian piano scopro o sempre meglio comprendo della musica, dell’insegnamento e della stessa mia vita non lo vado tanto a raccontare in giro: a chi potrebbe interessare, poi...?

 

Con l’andar del tempo, notte e giorno, senza sosta, tutto quanto impercettibilmente matura, tesse inedite connessioni, si delinea secondo forme via via più leggibili, affiorando per repentini bagliori alla coscienza. Infine, inevitabilmente, si traduce in un sempre più "personale" approccio allo strumento: lo si avvicina con amore e intima, calda passione. Qualcosa che coincide con la Vita e gli affetti più veri, dove non ha più minimamente senso né valore perdersi nell’infernale, osceno turbinio della planetaria sardana.

 

 

2. "Se tu volessi... potrei arpeggiarti una storia..."

 

Ab origine tacitamente inteso quale fase per lo più ancillare e servile del fare musica, benché spessissimo, tanto nella produzione leggera più comune quanto in parecchia e ottima fusion (soprattutto alla 12 corde) esso si riveli altamente suggestivo sotto molteplici aspetti, l’arpeggiare può certamente ambire, senza remore di sorta, ad attingere ruoli da prima donna e, ben al di là dal restare superfluo e mero "surplus" guarnitivo-decorativo a carattere sterilmente tecnico (dunque "asemantico", cioè sostanzialmente spoglio di contenuto "pieno": concetti, eventi, immagini, emozioni, "visioni", ecc.), ad accollarsi delle potenzialità significative davvero insospettabili.

Senza dire di quell’ancor più naturale carica semantizzante che di fatto esso è in grado di assicurare, in sinergica concomitanza, nel contesto di una qualsiasi performance espressiva già di per sé ampiamente dotata di una propria specifica "elettricità di senso" (U. Eco): narrazione, poesia, pittura, fotografia, cinema, ecc.

 

Con la stessa sua struttura, e dunque entro i parametri di quel tempo/ritmo che in un andamento ciclico ed eguale (cioè, periodico e regolare) viene a definirsi, ciascun arpeggio (con i suoi ricorrenti e precisi ictus/accenti/pulsazioni) può dignitosamente tanto delineare storie, quanto suggerire immagini, emozioni, "visioni" e via discorrendo.

 

Dal momento che di fatto essi incarnano una sorta di interessante, benché ambigua, sintesi armonico-melodico-ritmica, raccontare mediante arpeggi si può.

Per loro tramite è possibile generare "CAMPI" di tensione su cui stagliare le (dare orientamento alle) "storie" più svariate, sia pure in embrione, ovvero vagamente definite (ciò che del resto vale per ogni codice comunicativo non espressamente "referenziale").

 

3. Codificando comportamenti spontanei

 

Per "raccontare qualcosa" con l’acustica è fondamentale sapersi abbandonare narrativamente a questo tipo di strumento, a dire il vero oggi sempre più "flessibile", e dunque via via più incerto e nebuloso nella sua "funzione" (in pratica, vi si suona indifferentemente di tutto: dalla leggera al jazz al country al folk al blues alla "classica" allo tzigano-gipsy all’etnico e via discorrendo).

 

Vi è, però, una metodologia già "pubblicata" e collaudata, per un tal genere di "abbandono", o anche in questo caso è immaginabile appena un’"autodidattica", ennesimo scacco nei riguardi di chi, per apprendere qualunque insignificante inezia, ogni volta spasmodicamente, ma invano, ricerca fra mille negozi di articoli musicali l’unico ed esclusivo "Manuale Regio", il "Testo Unico" prescindendo dal quale "eh eh, cari miei, non si va da nessuna parte!"?

Probabilmente, ancora una volta si tratterà di istituire tutto un "inedito sapere".

 

Quanto a me, risolvo la questione come al solito osservando attentamente ciascuno dei miei comportamenti più spontanei ed istintivi, riflettendovi metacognitivamente e fissando, all’inizio appena per me stesso (che alle vie maestre battute ad oltranza non ho mai creduto: qualcuno ricorda Martino Testadura ne "La strada che non portava in nessun posto" di G. Rodari?), delle "regole" ragionevolmente provvisorie, dunque elastiche e serenamente perfettibili, nel tempo.

 

In ogni caso, pur mettendola in questo modo, parecchie cose che valevano per la chitarra elettrica possono continuare ad avere senso nel presente e nuovo contesto:

 

posizione/postura (anche suonando l’acustica, la sacrale e mistica erezione ad "obelisco", in qualche misura contrabbassistica, "alla Stowell", consentirà prese altrimenti possibili solo a costo di penosissime contorsioni; niente male, sempre in tal senso, la filosofica buddhità con cui un Diorio "eleva" la paletta lievemente al di sopra del proprio capo; non per questo, tuttavia, mi sembra vada macchinalmente irrisa l’imperdonabile – da un punto di vista "classico" – ma inconfondibile maniera in cui Metheny suole sfiorare le più dolci e sognanti creazioni di cui è capace. Fra le tante, una ben modulata "Opening", in "More Travels", discreto video del ‘92: Pat seduto, riflessivamente chino e avvolgente su una calda, dolce, morbida Manzer, supinamente orizzontale e con chiara levità riposante sulla coscia destra, entrambi i piedi a terra);

collocazione della chitarra (secondo lo stile classico, fra le gambe, o anche graniticamente "impiantata" sul solido zoccolo della sola destra);

aspetto dello strumento in fase di riposo: incondizionatamente disponibile, ribelle en plein air, fuori dall’iperprotettiva custodia, "a testa alta" sul consueto supporto (Aristide Bruant ritratto da Lautrec "dans son cabaret", con al collo un rosso e vistoso foulard: più prosaicamente, nel nostro caso, il vecchio ma sempre utile brandello di camicia o pigiama riciclato per asciugare le corde al termine di ogni passionale match…);

scelta del plettro e personale uso del medesimo nel "mordere" le corde;

tocco e intenzione;

gestione delle dinamiche (nell’acustica, necessariamente dipendenti da una ben dominata muscolarità, essendo in gioco dimensioni produttivo-fruitive rigorosamente "nature");

ampia valorizzazione delle corde vuote;

triadi o bicordi compatti trasferibili lungo la tastiera (cfr., in Appendice, ne "Il sogno di Inga", i "Moduli"), cercati/costruiti ad arte o casualmente azzardati (caso, serendipità? Si veda, qui di seguito, L’arpeggio come "architettura"), ma successivamente compresi, razionalizzati, approfonditi, contestualizzati e, se utile, sviluppati;

arpeggi su almeno 5 corde, soprattutto per ensemble aperti (la chitarra acustica vi si presta ottimamente), cercando di evitare il più possibile soluzioni trite o banali (come, ad es., un Am9, con 3 corde vuote e G, C premuti al quinto capotasto delle corde D e G; oppure un C7+, con 3 corde vuote, C al terzo capotasto della corda A ed E al secondo del D);

spontaneo generarsi di atmosfere particolarmente espressivo-intimistico-impressionistiche, specie in presenza di cellule o sequenze vagamente melodiche, piuttosto frequenti sulle tre corde più piccole (G, B, E cantino);

consapevole e talora protratto assaporamento di ogni impasto armonico-timbrico che appaia per qualche verso "speciale".

 

4. Dimensioni "sonoro-musicali" dominanti suonando un’acustica

 

Se lo strumento utilizzato per "narrare arpeggiando" è una chitarra "acustica"

 

(benché mi appaia alquanto insensato parlarne in modo generico, come se le svariate e irriducibili occorrenze concrete di un simile manufatto, poni pure della stessa marca, e persino del medesimo modello, fossero fra loro identiche quanto al genere di approccio specificamente richiesto, allo speciale, "unico" rapporto corporeo che inevitabilmente dovrà crearsi e, soprattutto, all’esito sonoro. Forse ancor più che nell’elettrica, scattano nell’acustica svariate, sensibili e speciali singolarità [token] che davvero non paiono ammettere alcuna reductio [type], e quando ne penso una "a caso" ovvero in generale, francamente non riesco a figurarmi che la mia o, al massimo, i pochi esemplari che nel corso degli anni mi è capitato di "frequentare" in modo significativo, per tempo e qualità d’impegno, dopodiché, per finire, non credo di essere l’unica vittima di un tale limite),

 

allora sono destinate a ricoprire un notevole peso, oltre a quella melodica

 

(autonomamente magnificabile in una chitarra elettrica o semiacustica, qui invece di fatto "costruita" da quel preciso CAMPO di tensioni armonico-timbriche e dinamico-ritmiche di cui è la naturale risultante, e da cui dunque spontaneamente emerge),

 

le dimensioni

 

timbrica (tipo, qualità e stato delle corde, innate caratteristiche dello strumento utilizzato, posizione delle prese lungo l’intera tastiera, ecc.),

armonica (natura e struttura di ciascun "brano" eseguito, nel suo complesso e/o nei diversi momenti che lo costituiscono: altezze e loro rapporti, ecc.),

dinamica (intensità e gestione della pennata su ogni singola nota/corda, "onde d’arpeggio", ecc.) e

ritmico-temporale (con tutte le variazioni, specie di "accento", talora anche transitorie, estemporanee e quasi impercettibili, che a tale livello si possono registrare: rallentamenti, anticipazioni, rubati, ritardi, pause).

 

Sarà amministrando consapevolmente/sapientemente/poeticamente le molteplici opportunità offerte in corrispondenza dei suddetti versanti

 

(non che la melodia debba di necessità perdere ogni interesse: semplicemente, essa verrà riconsiderata/reinterpretata nel contesto di un CAMPO [cfr. questo concetto nel mio precedente saggio "Narrative Guitar VS Tecno-automatismi"] i cui connotati particolarmente emotivo-poetico-descrittivo-narrativi potranno meglio esprimersi e risolversi al livello di uno o più tra i seguenti piani: tempo/ritmo, armonia, timbro e dinamica)

 

che saranno possibili "narrazioni" certamente interessanti, avvincenti e, se la ricerca risulterà "fortunata", anche innovative,

 

(ad esempio, maggiormente basate su atmosfere di intensa affettività, su virtuali frammenti di trama, frame, ovvero "sceneggiature" non ancora discorsivizzate e forse neppure suscettibili di soddisfacente traduzione "linguistica", su impressioni emozionanti o coinvolgenti e via dicendo).

 

5. Acustica aut elettrica?

 

Arpeggiare su un’acustica non è la stessa cosa che farlo utilizzando un’elettrica.

In cosa consiste la differenza?

Nella spontanea associazione della prima con l’arpa (da cui, appunto, "arpeggio"), che ovviamente il nostro orecchio (ma non solo esso) è avvezzo ad attendersi e fruire quale strumento più che mai "acustico"?

In tutta una serie di connotazioni circostanziali ed emotive?

 

Certo, si può benissimo arpeggiare anche su un’elettrica.

Ma con quali risultati?

Semplicemente, "diversi".

 

Spesso si torna alla chitarra acustica, intima e relativamente silenziosa, per "ricostituirsi" un po’, specialmente dopo un qualche genere di scacco, delusione o "tradimento" (musicale: da parte dell’elettrica, magari...)?

Sotto quest’aspetto, tuttavia, può sortire effetti consolatori non solo tale circostanza, trattandosi invero di una facoltà sostanzialmente comune ad ogni tipo di musica, in relazione al momento, all’indole e/o allo stato d’animo dell’artista.

In ogni caso, perché, quando avverte la più viscerale necessità di raccogliersi, recuperare forze perdute, ricostruire identità smarrite, il "chitarrista" (forse anche in virtù di quel particolare contatto corporeo con il proprio strumento di cui maggiormente egli può avvantaggiarsi rispetto ad altri) fa volentieri ritorno alla più confortevole intimità di quella "sweet home" che per lui altro non potrebbe mai essere se non la calda e "acustica" Presenza al cui orecchio con discrezione sussurrare paroline dolci e da cui ottenerne, affettuosamente accostandovisi?

Ciò che accade poi, sul piano specificamente catartico, è tutt’un’altra affascinante questione che certo non possiamo (e neppure ci sembra giusto) liquidare qui in due parole: ha strettamente a che vedere con il "benessere", in quanto armonico recupero/ricostruzione di una precisa unità psico-affettiva, chissà dove e come "perduta" o andata in frantumi...

 

 

6. Tenersi in forma fra le 06,30 e le 07,00

 

Ineludibile, soprattutto se ad essere "toccata" all’alba è una popolana ma generosa e risonante acustica, la questione del "volume" (dettaglio solo in apparenza insignificante: ne sa qualcosa invece chiunque, vivendo in un condominio, non possegga all’interno del proprio appartamento almeno uno straccio di stanzino perfettamente insonorizzato; cfr., il mio articolo La "formazione del suono" nella chitarra jazz, al paragrafo "La mano sinistra"), da tenere ovviamente basso.

Le corde verranno allora trattate con estrema prudenza e la mano sinistra potrà contribuire allo smorzamento dell’esito sonoro almeno quanto la destra (plettro): ne scaturirà alla fine un suono straordinariamente vellutato, un impercettibile sussurro...

Ma, a parte l’aspetto puramente logistico del problema, potrebbe forse la particolare circostanza di cui si sta dicendo aver in qualche modo a che fare con la narrazione (penombra, silenzio, bassa voce, intima colloquialità comunicativa, confessione; cfr. il mio saggio "Il buio, il silenzio, il tempo, la musica, il racconto")? E le stesse composizioni generate in un tale "clima" risulteranno per caso di un certo tipo, anziché di un altro? Ne risentiranno, insomma, tanto la dimensione creativo-produttiva quanto il costituirsi, nel tempo, di una personale e inconfondibile tecnica performativa? A lungo andare, cioè, ne verrà forgiato, condizionato o modificato ciò che altrove ho chiamato Sistema Fisico Stilistico Personale?

Secondo me, risposta affermativa su tutti i fronti.

 

Suonata nel modo che s’è appena detto, comunque, la mia chitarra acustica somiglia (e quasi appare funzionalmente omologa) ad uno strumento a fiato: un flauto traverso, per l’esattezza, dall’ottavino al basso, a seconda del registro.

Il gioco della mano sinistra vi si fa spontaneamente assai vigoroso, e il martellare delle dita su una tastiera a dir poco "sensibile" è fra i più materici.

Pare di potervi selezionare ogni nota con estrema consapevolezza e decisione: dunque, quel significativo passo che è la formazione del suono vi risulta notevolmente incentivato.

 

C’è qualcosa di sfrontatamente "pubblico", e persino pretenzioso, nella chitarra elettrica, in grado di dare spettacolo al cospetto delle più vaste platee.

L’acustica non amplificata, e se possibile neppure piezoelettrificata, sembra al contrario decisamente fatta per "parlare" (ricordo bene un’espressione che ho puntualmente incassato alla stregua di un complimento positivamente stimolante e, nella presente ottica, quanto mai pertinente: "Ma... la Sua chitarra PARLA!"…!?) a poche persone, nella più calda intimità.

Qualcosa di molto privato e colloquiale, come per natura, le si associa, e inevitabilmente la contraddistingue. Uno speciale "carattere" che a mio avviso ha parecchia attinenza con quell’"aver cura di sé" di cui usualmente trattano le psicologie d’impianto narrativo-autobiografico (D. Demetrio, C. Neri, ecc.).

Soprattutto sotto quest’ultimo aspetto ritengo che l’acustica possa magnificamente calarsi nella "piega" che da qualche tempo la mia vita sta prendendo (ho oltrepassato i Cinquanta…): un intenso bisogno di ritorno al privato (che non vuol dire, necessariamente, "chiusura"), ad un’identità più autentica (che non si intende rinnegare, dimenticare o smarrire, in balia dei centomila cacciaballe di questo pianeta), alle piccole (ma grandi e sicure) "cose" che sinceramente amo ("My Favorite Things"… La ricordo nella tenerissima interpretazione di Philip Catherine e Niels-Henning Øersted-Pedersen, in Spanish Nights. Che musica!), al mio "cantuccio", senza tante mistificazioni, alla sempre più solitaria e riservata ricerca di me stesso.

Della mia Anima.

Fortunatamente, non è il mio una sorta di "corbaccio" boccaccesco. Non sono pentito di nulla.

Ho soltanto voglia di andare un po’ più a fondo... servendomi dell’umile strumento che m’è toccato in sorte.

Esso si accosta e infine si lega al suo amante (che lo suona) / amatore (che lo contempla), fino a divenire, per lui, tramite "espressivo" ideale: malinconico, nostalgico, riflessivo, accogliente, appassionato, intimo, portatile e fedele, confessore e amico paziente, umano, duttile e, perché no?, un po’ zingaro…

 

7. Corde flat

 

Indiscutibilmente, anche qualora si decida di utilizzare un’acustica, resta sempre valida quella horn conception (cfr. il mio saggio "La formazione del suono nella chitarra jazz") tanto scrupolosamente attenta al rapporto plettro/corde, a tutto vantaggio di un suono "il più possibile privo di attacco".

Ora, per meglio esaltare quel particolare tipo di approccio (che mi calza a pennello), personalmente sono solito montare sulla mia calda Ibanez, adattissima all’arpeggio, delle corde flat: piene, dolci, rotonde e, a differenza dalle zigrinate, assolutamente esenti da tutte quelle (per me) spiacevoli rumorosità oltremodo lesive di ogni buona concentrazione.

 

Quanto al calibro delle medesime (importantissimo in rapporto alle "intenzioni"), un paio di inverni fa, a Vobarno (BS), avendo creduto di poter montare delle nuove *** 010-046, per l’inaugurazione di una personale fotografica (cfr. www.umbertomarconi.it) musicalmente commentata dal sottoscritto, mi resi conto (non senza dramma) del fatto che ogni chitarra "chiama" le proprie corde più congeniali.

La mia acustica, ad esempio, esige delle "flat" *** 011-050 o, in mancanza di meglio, **** 012-052. Con "Loro" riesce a dare il massimo.

 

Ogni cosa, comunque, quella sera filò liscia, ma appena fui nuovamente a casa volai come un razzo a riassestare sul mio strumento le precedenti *** 011-050, da lui ambitissime, con troppa leggerezza sostituite benché non ancora decrepite ("gallina vecchia…").

 

NB. Gli asterischi (*** e ****) stanno, ovviamente, per le due note case produttrici che qui preferisco non citare.

 

 

8. La narrazione "acustica"

 

Non potendo ambire alle medesime tirate espressionisticamente dense e voluminose

 

(oggi, di una teatralità sempre più "gridata")

 

che può tranquillamente permettersi una qualsiasi chitarra elettrica

 

(in cui la gestione dell’intensità risulta notevolmente agevolata dal supporto di un’amplificazione),

 

a meno che non si tratti di utilizzare in funzione "tematica" delle sequenze di accordi più o meno aperti e/o fortemente "pennati"

 

(cfr., in tal senso, la personalissima e potente interpretazione di "Summertime" offerta da Pat Metheny nel bell’album del ‘99 che lo vede dialogare, d’amore e d’accordo, con Jim Hall),

 

la narrazione tramite la chitarra acustica deve giocoforza rassegnarsi a preferire, quale proprio specifico campo d’azione

 

(potendolo fare, d’altronde, assai meglio dell’elettrica),

 

l’espressione/creazione/suggestione di atmosfere, stati d’animo, onirismi meditativi, "mantra", armonici o disarmonici "CAMPI"

 

(cfr. il senso da me attribuito a quest’ultimo concetto in "Narrative Guitar VS Tecno-automatismi"),

 

mediante l’esecuzione di arpeggi ad "accordi" possibilmente aperti o a "parti late", lungamente risonanti, quasi ipnotici o per lo meno rilassanti, giocati di norma su configurazioni relativamente fisse delle dita della mano sinistra.

 

Studiando i vari impasti armonico-emotivi che vengono via via ottenendosi al più o meno "aleatorio" trasferimento in orizzontale o in verticale (sulla tastiera) di determinate "architetture d’arpeggio" (cfr. qui di seguito, il punto 9), sarà bene individuarne la definizione in termini modali o anche "raga" (in sanscrito: modo melodico, tipico della musica indiana, che si ispira a un tema poetico con significazione simbolica).

Si veda, ad esempio, la prima "presa" arpeggiale de "Il sogno di Inga" (cfr. Appendice).

Che razza di "accordo A" potrebbe essere/definirsi mai quello?

Maggiore?

Minore?

Altro...?

 

Comunque sia, l’inserimento di ogni ulteriore nota non contenuta nella precisa sequenza definita dall’arpeggio stesso è per necessità dannato a condizionare un esito verificabilmente sgradevole, o per lo meno non "in clima" con il particolare effetto creato da quella esatta "melodia verticale" (sui concetti di melodia e accordo negli arpeggi, cfr., fin dalle prime righe, http://www.soundme.com/sweep/sweep03.htm: "potrebbe sembrare che si stia sweeppando un accordo. Effettivamente le note fanno parte proprio di un accordo. […] queste sono comunque note singole, di carattere melodico. Un accordo [...] deve essere invece formato da un gruppo di note sovrapposte e simultanee").

 

9. L’arpeggio come "architettura"

 

Qualche suggerimento inconsueto

 

1) Cessare di "ragionare troppo", di voler apparire (persino a se stessi!?) sempre così "intelligenti", lucidi, "profooooooooooooondi"…;

2) "abbandonarsi" con fiducia all’aspetto puramente esteriore, visuale, "architettonico" del fare musica;

3) lasciarsi ispirare e suggestionare da fattori non strettamente introversivo-tecnico-musicali, cioè"da addetti ai lavori";

4) accettare di essere ogni tanto appena un po’ "stupidi".

 

 

Exemplum

 

Se per ottenere quel determinato effetto d’arpeggio ho dovuto posizionare le dita sulle corde in un certo modo (magari a caso), a risultato conseguito mi domando: "cosa accadrebbe se" collocassi diversamente questo o quel dito, andando a piazzarlo/i, che so io?, lì o là, più o meno simmetricamente rispetto alla precedente presa, ovvero anche soltanto bello o brutto a vedersi?

Così facendo, mi lascio andare a tutta una serie di istintive tentazioni che verosimilmente nulla sembrano avere a che fare con la Musica.

Di fatto, ogni mia scelta appare guidata, influenzata da ragioni di ben altro genere: sto candidamente giocando (jouer de la guitare, to play guitar!) con la tastiera, le dita, le corde, con le forme, la natura e l’aspetto meramente sensoriali delle cose, perché sono mille volte convinto che tutto ciò potrebbe condurmi a soluzioni straordinariamente interessanti, a "scoperte" che resterebbero a me per sempre remote e inaccessibili, qualora assumessi ad unico ed esclusivo strumento [auto]didattico il quieto, sicuro e ieratico punto di vista dell’"Esperto".

 

 

Argomenti a sostegno

 

1.

Perché, mi chiedo, non dovrei seguire anche una pista di questo tipo?

Dov’è la Legge che lo vieta?

 

2.

Perché la musica, che dovrebbe innanzitutto divertire (sia pure in modo intelligente), viene ogni volta costretta, per qualche incomprensibile e fottuta motivazione soprannaturale, ad incassare retrogusti talmente antipatici e seriosi?

Non è forse nata come un "gioco"?

Non dovrebbe recare leggerezza e allegria?

E anche nella tristezza, non potrebbe più spesso ricoprire l’incantevole ruolo di colei che solleva animi afflitti (o innamorati...), con quella sua speciale malinconia da cui tanto amiamo farci lievemente cullare?

 

3.

C’è qualcosa di densamente artistico, pittorico-pittoresco, grafico, estrinseco e divertente nelle diteggiature per arpeggi che vado via via indagando.

Alcune prese o posizioni le definirei addirittura "eleganti"…

 

 

Provvisorie conclusioni

 

Nell’invenzione (dal latino "inventio" = ritrovamento, scoperta) di ogni singolo arpeggio, mi sembra dunque avvincente il poter attribuire un senso speciale (sul piano della ricerca… e della suggestione che, a mio avviso, dovrebbe sempre alimentarla, affascinarla) a questo risvolto puramente visivo della questione: indurre le dita ad assumere delle configurazioni inusuali (rispetto alle più note prese accordali).

 

 

Codina…

 

Solo in seguito, cioè ad effetto ottenuto, si potranno fare i conti a tavolino, eventualmente decidendo per un qualche nuovo genere di "teoria musicale", dal momento che, con ogni evidenza, quella attualmente "vigente" non sembra affatto in grado di offrire adeguate chiavi interpretative e/o codificanti.

Per poterlo fare, dovrebbe mettersi in discussione almeno un po’...

 

 

10. "Svelare" arpeggi

 

... li vado indagando e "insegnando a me stesso" (cfr., al riguardo, i 14 frammenti/spunti di riflessione proposti in Per un’"autodidattica" della composizione e dell’improvvisazione nel jazz) tranquillamente, senza fretta, con fin troppa nonchalance, quasi bighellonando a caso; almeno per il momento, cioè finché non mi deciderò a mettere un poco d’ordine fra le "scoperte" da me via via effettuate, istituendo delle "regole", come ad esempio quella che renda conto delle cangianti relazioni tra le varie corde pizzicate (e dunque fra le diverse note prodotte), a seconda che un’"architettura d’arpeggio" contenente almeno una corda vuota venga "mossa a piacere" dal terzo, quarto o quinto capotasto, in direzione di registri più gravi ovvero più acuti.

 

Non mi imbarazza affatto dichiarare apertamente tutto ciò.

 

Di norma, prendo nota a matita, su un semplice quadernino, di una qualunque disposizione delle dita sulla tastiera che mi dia un suggestivo esito acustico-emotivo (talvolta capita di sperimentarne alcune realmente balorde...!).

Da quel preciso istante, ci investo del tempo, facendo ogni cosa senza la minima impazienza, serializzando fin dove possibile quella determinata "presa", per poterne assaporare le mutevoli "cangianze" lungo l’arco dell’intera tastiera, considerandone i diversi effetti, specialmente in chiave "narrativa" (anche, perché no?, nel senso di quell’"esoterica creazione di immagini e visioni" di cui dirò più sotto), tentandone una sostenibile definizione in termini armonici o mediante sigle accordali, ma soprattutto vivendone quasi estaticamente ogni eventuale effetto meditativo-terapeutico: di contemplazione, nostalgia, memoria e… preghiera.

 

Per un’efficace descrizione estroversiva degli arpeggi (quella, cioè, che saprebbe azzardare persino il più digiuno "uomo della strada") potrebbero dimostrarsi estremamente illuminanti certe metafore (parecchie delle quali, come s’è detto sopra, "architettoniche"). E non è affatto un comandamento divino che queste debbano per necessità essere avanzate dai soli "addetti ai lavori".

 

Al contrario, riguardo a questo genere di cose l’orecchio dell’ascoltatore comune sembra proprio avere molto da dire, ed altro ancora…

 

Qualche buona metafora utile ad una felice tras-duzione verbale degli arpeggi potremmo leggerla nel seguente passaggio narrativo [mio]:

 

"[…] e si sentì come bruscamente destato dal gelido sferragliare di una metallica tenda che con fragore si dischiuda o da un intero servizio di cristalleria che vada completamente in frantumi o, infine, da una collana di perle che si disfi, sinistramente rimbalzando quelle per ogni dove".

 

11. Fattori di "cangianza" nei metro/ritmi e/o nella melo-armonia

 

1.

 

Una dimensione da tenere bene in considerazione risiede nella molteplicità dei possibili metri e ritmi (polimetrie e poliritmie) direttamente suggeriti/stimolati, benché di "norma" in modo aleatorio, dalla "forma" stessa degli arpeggi e/o dal moto "escursivo" (da "escursione": l’andare e venire, l’allontanarsi da un preciso punto di partenza e il tornarvi, naturalmente inclusa ogni digressione di volta in volta ritenuta irresistibile) del plettro nella mano destra, con tutti gli accenti che, quasi spontaneamente, vanno via via evidenziandovisi.

 

Potremmo definirla "cangianza".

 

Ne "Il sogno di Inga", ad esempio (cfr. Appendice), il Modulo 2 costituisce, pur nella sua brevità (4 battute), un’idea metrico-ritmica palesemente irregolare (4/4 + 3/4 + 4/4 + 3/4, per un’interessante fraseologia articolata su un’estensione complessiva di 14/4).

Ricordo benissimo di non averla concepita in astratto, bensì accogliendo con curiosa disponibilità ("E ora… vediamo cosa accade se…") un’intenzione celata, in fondo, tra le pieghe strutturali dell’arpeggio stesso, spontaneamente esplicitatasi, infine, nel momento della concreta esecuzione.

Era questa, forse, la buonarrotiana "Forma" che andava "liberata" dalla bruta "materia"?

 

Comunque sia, si tratterà di mantenersi adeguatamente svegli, aperti, ricettivi e sensibili a tutto quanto il "caso" verrà, purtroppo solo per fugaci bagliori, "rivelando".

 

 

2.

 

Accenti con pennata in giù o in su, ma soprattutto sulle note avvertite come particolarmente pregnanti sotto il profilo espressivo.

Utilissimo osservarne le importanti conseguenze sul piano metrico/ritmico.

 

 

3.

 

Presenza di note fisse ripetute/ribattute con frequenza (pedali) quale elemento di continuità nella costante modulazione armonico-accordale (specie se cromatica), ascendente o discendente che sia.

Quest’ultima viene resa quasi impercettibile (specialmente là dove anche il tocco del plettro si fa più sottile e delicato) dal fatto che, se qualche nota nell’incedere del brano eseguito cambia, qualche altra resta invece "apertamente" stabile. Ogni accordo assume così un diverso "nome", fattualmente costituendosi di un differente ensemble armonico; eppure si presenta, e concretamente viene percepito, quale sottile trascolorare, naturalissimo sfumare/mutare (genetico?) del precedente.

 

1° esempio: l’assenza di un "ponte" ammortizzatore di dissonanza prima di ogni Ab, in fase di composizione de Il sogno di Inga (cfr. Appendice), mi si è ben presto trasformata in un fattore-stimolo naturalmente orientato all’intrigante chiusura del G6 sulla corda G, ribadita (a mo’ di pedale) in qualità di 7maj nel successivo arpeggio costruito sulle note di Ab.

 

2° esempio: E cantino e B utilizzati in funzione di pedali sul registro acuto, certamente meno frusti di quelli solitamente collocati su D, A o E basso, a sostegno di ensemble armonici opportunamente agiti sulle restanti quattro corde.

 

12. Seconde melodie?

 

Un arpeggio individua innanzitutto un "canto", ovvero delinea leggibili trame tematiche.

Le relazioni reciproche che le diverse componenti vi intrattengono non sono a priori e meramente di natura "armonica", esprimendo invece una spiccata vocazione "melodica".

Per tale ragione l’ensemble di note funzionali e suggestive che lo costituiscono potrebbe risultare completamente inutilizzabile in un accompagnamento a dense pennate.

 

Considerato l’ambiguo statuto (nel contempo verticale e orizzontale) dell’arpeggio, aspetto che ne fa una struttura (e, di conseguenza, anche una pratica) notevolmente autonoma/autosufficiente, malvolentieri esso tollera la simultanea coabitazione di ulteriori linee melodiche, oltre la propria.

Si osservi, ad esempio, ne "Il sogno di Inga" (cfr. Appendice), la struttura del Modulo 1 (N.f. , 5, 6, 7, 9), dove, pur essendo in gioco delle corde vuote, alcuni intervalli (5, 6, 7) risultano tuttavia talmente "stretti" da generare immediatamente una netta impressione "melodica".

Di fatto, anche sul pentagramma il tutto appare espresso in modo "assai" orizzontale, diacronico, poiché linearmente svolto nel tempo.

Per l’esatta diteggiatura (che, com’è ovvio, non potrà mai essere del genere squisitamente single note), si farà ricorso ad una tablatura giustamente puntuale.

 

Nel caso una qualche linea melodica debba necessariamente esserci, questa dovrà giocoforza avere più meno la struttura di un pedale, costituito da note che durino quanto le "onde lunghe" dell’Atlantico: diciamo, almeno un paio di semibrevi con legatura di valore.

In altre parole, sarà bene che esse non disegnino movimenti eccessivamente turbolenti o divaganti e neppure creino un’incrociata, frenetica, soverchia e sostanzialmente inutile "informazione melodica", con l’inevitabile conseguenza di suscitare quel genere di spiacevole tensione che tanto di frequente si associa, nel momento dell’ascolto, alla "troppa musica": orrore del silenzio e disprezzo dell’eloquente semplicità.

Al contrario, con la loro "longue durée", tali "melodie" potranno evidenziare e valorizzare le diverse componenti armoniche di ciascun accordo-arpeggio, incrociandole secondo itinerari da selezionare, caso per caso, con originalità.

 

13. Qualche problemino

 

Eseguendo arpeggi per periodi notevolmente protratti, le dita della mano sinistra tendono ad anchilosarsi e il plettro, in una destra ormai adattatasi ad escursioni rigorosamente verticali sulle corde (solo di rado, infatti, accade che ne ribatta qualcuna), perde quella naturale velocità e scioltezza di cui era precedentemente capace nel gioco orizzontale, melodico-single note, su una medesima corda o anche "saltando" dall’una all’altra.

Insomma, drammaticamente ci si imbatte in un problema di non lieve entità, nel momento in cui si decide di tornare a suonare "alla vecchia maniera", senza tuttavia poter disporre del tempo necessario a che un’intera serie di importanti funzioni possa riattivarsi (talora, anche a costo di un lungo e penoso esercizio di recupero).

Per questo esatto motivo, in ogni eventuale performance, dal vivo o meno, nella quale sia comunque in gioco l’esecuzione di brani strutturalmente più tradizionali, sarà bene lasciare in coda la sezione riservata agli arpeggi.

Sembra, però, che lavorare con impegno su questi ultimi rinvigorisca notevolmente la mano sinistra (come personalmente mi assicurò, qualche anno fa, Joe Diorio), benché senza dubbio ne ottunda, sia pure (forse) in via temporanea, la mobilità (agilità e precisione) "single note".

 

14. Utilizzo del plettro a "mente vuota"

 

1.

 

Un altro inconveniente di non poco conto in cui può accadere di incappare studiando, come faccio io, un sistema per suonare la chitarra [anche] unicamente ad arpeggi, è costituito dall’improvviso prendere ad inciampare senza più riuscire a recuperare il "filo" (ritmo, accenti, senso, continuità, ecc.), cioè a riconquistare la precedente e giusta andatura, nel momento stesso in cui si inizia a ragionare su quanto sta succedendo, con particolare riguardo a ciò che va combinando la mano destra (dunque, il plettro) lungo il mutevole ventaglio delle sei, cinque o quattro corde su cui quel determinato "modulo" vuole essere giocato.

 

Ogni cosa filava alla grande finché avevo lasciato che l’automatismo conducesse il gioco.

Di colpo, questo s’è fatto ruvido nel momento in cui ho iniziato a "pensare"…

In breve tempo, tutto s’è interrotto. Inesorabilmente.

 

Arpeggiare sembra (e in effetti è) facile, naturale, se lo si lascia procedere in quella profonda "inconsapevolezza" che ci sorprende esistere in totale adesione con quanto tra noi e Lui (il nostro strumento) sta magicamente accadendo.

I guai iniziano allorché irrompe la coscienza, sostituendosi al non-pensiero.

Si arpeggia a meraviglia nell’epochè ( = sospensione del giudizio, del ragionamento), e vi si può sperimentare la più intensa delle meditazioni…

Con il subentrare della "riflessione" (soprattutto se è l’inconscio a pungolarla, incalzandola con qualcuna delle sue fottutissime ansie o paure), scatta una sorta di blocco che può rendere il musicista, in ogni suo vano tentativo di riscatto, goffo e imbranato.

 

È un problema che ha le proprie radici nella più o meno disinvolta e automatica padronanza del meccanismo (preventivamente analizzato, compreso e studiato) delle pennate, verso il basso o l’alto, discendenti o ascendenti.

 

Nel dettaglio, una delle peggiori trappole risiede nel fatto che, arpeggiando oltre il IV-V capotasto, si vanno a saggiare, tra una corda e l’altra, intervalli piuttosto inusitati, inconsueti, talmente "lati" (e spesso "retrogradi") da "mandare in tilt" l’ordinaria logica dell’abitudine, per cui salendo da una corda all’altra, ad esempio dal G al B, o dal B al E, ci si aspetterebbero delle note ascendenti: ciò che spesso invece non accade.

Ne risulta fortemente scosso e deluso (ma, se si vuole, anche positivamente sollecitato a rimettersi in discussione) quel "Sistema Fisico Stilistico Personale" (cfr. tale concetto nel mio breve studio recante l’omonimo titolo) lentamente e saldamente concrezionatosi nel corso di una più o meno lunga pratica strumentale. Esso "si attende" di trovare determinate note a certe posizioni, e allora "muove" il plettro entro i limiti di precisi (nella fattispecie, ahimè, controproducenti) stereotipi di comportamento tecnico.

 

 

2.

 

Gli arpeggi possono essere, in qualche importante senso, delle autentiche "macchine meditative".

Il pensiero viene imbrigliato, e necessariamente costretto ad "unificarsi", a non distrarsi (pensando, ad esempio, a cose come la struttura di un certo passaggio, il verso di una determinata pennata, il suo accento o qualsiasi altra cosa possa richiedere un minimo di riflessione).

Per ben arpeggiare, insomma, è necessario "fissare la mente" sulla sequenza sempre uguale di microgesti, nel suo complesso, cioè non in modo analitico, e comunque lasciando che l’automatismo proceda da sé, senza ingerenza alcuna da parte del pensiero razionale.

Anche per ragioni espressive, l’effetto dev’essere quello di un evento che sappia marciare per proprio conto, fluidamente, senza esitazioni o rabberciature, e nel rispetto più assoluto del tempo: quest’ultimo è dato, nell’arpeggio, esattamente dall’incedere disinvolto ed eguale, regolare e periodico, della particolare struttura di volta in volta prescelta.

 

 

15. Acusticità e "intimità performativa"

Mi pare altresì immediatamente verificabile, nella chitarra acustica, un elementare ma non irrilevante dato di fatto: la maggior naturalezza, sensibilità, e quindi "umanità" (dimensione non poco trascurabile in ogni narrazione che debba rispettarsi) del suono, in seguito alla soppressione di qualsivoglia impianto di amplificazione, diretto (personale) o, peggio ancora, supplementare (esiti estremamente letali può in effetti sortire talora un service, specie se non all’altezza della "situazione", che nel nostro caso è indiscutibilmente "speciale", ossia particolarmente esigente sotto il profilo della "resa sonora"), che a priori possa condizionare negativamente l’immediata risposta ambientale, quella di cui in primo luogo tiene conto l’orecchio dell’ascoltatore.

Potrà essere sufficiente, infatti, l’utilizzo di un semplice e buon microfono non unidirezionale, neppure eccessivamente prossimo alla bocca dello strumento, qualora lo spazio fisico della performance non sia di eccessiva ampiezza ovvero non debba accogliere un pubblico da stadio: blandizia estrema, quest’ultima, da schivare tuttavia ("Vade retro, Satana!!!") con spartana fermezza.

 

La particolare circostanza comunicativa di cui si sta dicendo dovrebbe paradossalmente restare una sorta di "democratico" rito "per pochi", in una condizione dialogica il più possibile intima e pacata.

Diversamente, sarà bene curare che i "molti" non si presentino "tutti assieme", e che dunque la performance abbia modo di replicarsi secondo necessità, benché, ovviamente, mai identica a se stessa: ogni "spectaculum" costituirà un evento unico e irripetibile, verità d’altronde sacrosanta per tutto ciò diciamo "umano".

 

16. "Esotericità" dell’arpeggiare

 

"Chitarra-Che-Arpeggia: mistico tramite iniziatico, mantrico, tantrico, demoniaco..." (da una conversazione con R.).

 

Effetti imprevedibili, "viscerali" (rischiosi?) dell’incessante, ipnotica iterazione di medesime note in circolari sequenze d’arpeggio.

 

Effetti sulla mente…

Solo quelli?

 

Il mio amico [R.] parlava a bassa voce e io non percepivo con bastante nitidezza le sue parole. Troppo disturbo nell’ambiente circostante.

Non capivo esattamente cosa egli andasse dicendo. Tuttavia (non so perché) assentivo, come se intendessi perfettamente, e molte di quelle cose mi fossero già note, familiari.

Così egli proseguì senz’altro il proprio discorso.

Ne afferravo il senso globale (l’isotopia centrale, direbbero i semiologi) unicamente dalle espressioni del volto di lui, ma di cosa stesse trattando esattamente, e in quali soggettivi termini, non lo seppi mai.

Sembrava comunque piuttosto preoccupato.

Allarmato.

Io, al contrario serafico e tranquillo, aggiunsi che su quell’argomento [gli arpeggi] avevo già steso parecchie pagine e, quando ne avessi avuto il tempo, le avrei assemblate in un bell’articolo.

 

Quest’episodio ne richiama immediatamente un altro: brandello di memoria e significativa "anamnesi" che quasi mi sfuggiva, oramai.

Una sera, a casa di G., inizio a suonare "Il sogno di Inga" (cfr. partitura in Appendice). U., dopo avermi concitatamente chiesto se anche quello sia tra i famosi "pezzi che si creano da sé", confessa che sin dalle prime sue battute gli vengono i brividi…

 

Oggi leggo nel sito del Bitches Brew Club (www.bitchesbrew.org, nota associazione culturale di San Benedetto del Tronto per la quale mi sono di recente esibito in un paio di occasioni):

 

" […] Esoteric-jazz" perché come nessun altro [Gianni Bergamaschi] riesce con la sua chitarra a creare visioni ed immagini più che suoni, e mentre esegue le sue composizioni ti massaggia l’anima…".

 

Forse con qualche piccola puntina di consapevole intenzione, l’autore del trafiletto [G. S.] impiega il termine "esoterico" secondo una disinvolta accezione che evidentemente non è quella ortodossa ( = segreto, occulto/occultistico, iniziatico, misterioso, oscuro, arcano), ma…

 

Egli parla infatti di "creazione di immagini e visioni" (oltre che, significativamente per noi, di "massaggio dell’anima"). Attività indiscutibilmente "poietica" e, in quanto tale, teurgica, magica, creativa.

Probabilmente, G. S. intende per questo verso alludere a quella sorta di imagines agentes, forti, nuove, eccitanti, atte a provocare urti emozionali (G. Bergamaschi, "Tarocchi: litterae laicorum e sistema di memoria", in Per una storia della semiotica, "Quaderni del circolo semiologico siciliano", 15-16, p. 503) che, in una sorta di "alchimia dell’immaginazione" (F. A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, 1972, p. 206), pongono in gioco simboli "vivi" dal grande potere evocativo (in quanto cariche di "affettività", esse producono nell’individuo energia intuitiva, analogica), alla maniera junghiana, espressione altissima di qualcosa di presentito, intuito ma non ancora conosciuto (G. Bergamaschi, cit., p. 506).

 

17. Immobilismo creativo?

 

Da quando ho iniziato a studiare i "miei" arpeggi sull’acustica (dapprincipio tantissimi), fissandomi infine su alcuni in particolare, la mia "vena creativa" si è in un certo senso bloccata, quasi inaridita, verosimilmente spenta...

O forse semplicemente concentrata in un punto, "unificata"…

 

Suono la mia acustica ogni giorno, ma vi ripeto sempre le stesse cose, tra brani e arpeggi.

Non che il fenomeno sia per me del tutto inedito.

Mi è già accaduto.

Ho pazientemente atteso.

Attenderò anche stavolta.

 

Fuori c’è parecchia neve, sotto un cielo del medesimo colore.

Ne cadrà ancora.

E tutto sembra fermo e silenzioso.

In attesa.

Come me.

Cosa inventare di nuovo?

Tra le mie vecchie composizioni ve ne sono già di adattissime ad un simile "paesaggio interiore"…

 

È possibile che tale "improduttività" sia connessa ad un altro genere di "svuotamento", in parte voluto e/o assecondato, che sta verificandosi in me anche e soprattutto sul piano esistenziale (rapporti con gli altri, con il mondo, gli impegni, le cose da fare, da escogitare, inventare, coordinare, organizzare, le responsabilità da assumere e via dicendo) e psicologico (volontà di pace, ecologia interiore).

 

Anche sul versante della scrittura ho ben poco da fare.

Mi son portato dietro un quadernetto durante le ultime vacanze estive, ma non vi ho annotato nulla, per un intero mese.

Un tempo, invece, quando volentieri scrivevo, buttavo giù note come questa (che speravo di riprendere e svolgere, un giorno), tra il narrativo e il descrittivo, con la pura e semplice voglia di capire, comprendere: me e, attraverso me, il mondo, la realtà circostante, ciò che accade in giro, gli scorni subiti e le mille coincidenze sciupate.

 

Che tale blocco sia il "diabolico" prodotto di quanto sono andato dicendo sopra?

Che gli arpeggi posseggano davvero quello stesso potere incantatore che ha la ciaramella dell’indiano?

In effetti, suonandone, si resta come intensamente ammaliati dal loro risultato e incapaci di distogliersene, quasi una prolungata degustazione potesse consentire di scoprirvi chissà quale celata verità o recondito senso.

Si dilegua la voglia di combinare qualcosa di più "dinamico", di meno "estatico", e la sensibilità alla melodia single note sopravvive unicamente grazie al macchinale precetto del doversi ogni mattina comunque duramente esercitare anche in quella.

Altrimenti…

Qualsivoglia altra forma di ricerca appare miserevole e vana, poiché l’arpeggio di fatto si prospetta come un "Tutto" onnicomprensivo, straordinariamente pago di sé, pieno come un uovo e palesemente indisponibile ad accogliere o tollerare ogni altra modalità espressiva.

In fondo, le condensa tutte in se stesso (come più volte ho osservato sopra)… e per di più degnissimamente armonizzate.

 

18. Un’ultima mail, per concludere: "programmare per sottrazione"

 

Caro Amico,

 

la mia è una condizione in un certo senso speciale, sostanzialmente fortunata, dal momento che non è con la musica che mi guadagno da vivere, e dunque alcuna necessità mi spinge a compiacere questo o quello, magari orientando la ricerca verso orizzonti che non potrebbero interessarmi meno di così.

 

Anche la mia chitarra acustica è in un certo senso speciale, dal momento che pare todo modo sfuggire ad ogni definizione tecnologico-liuteristica: classica, country, acustica, napoletana, gipsy? Boh!

È per questo che, alla fine delle finite, come per fare il pieno, vi ho montato delle corde da semiacustica jazz: 6 dolcissime flat *** 011-052 che ci stanno a pennello…

Il risultato sonoro è un gradevole impasto di classica, gitana, jazz… e non mi dispiace affatto. Anzi, trovo tutto l’insieme talmente naturale da sembrarmi alla fine letteralmente irrinunciabile.

Persino la tastiera con tali corde si fa più morbida, "umana", duttile, plastica di quanto con altre non riesca ad essere.

Ovviamente, è anche questione di action.

Sarà su questo strumento che d’ora in poi condurrò le mie ricerche e allenerò il pensiero.

 

[…] non è detto che per tenersi in esercizio si debba necessariamente suonare come forsennati per un mucchio d’ore al giorno.

E poi, non è quella del musicista la professione su cui conto per campare, e neppure la mia principale occupazione oraria, benché alla cosa mi dedichi con la stessa passione e convinzione con cui tipicamente ci si volge al più accanito degli hobby.

Questo vuol dire innanzitutto che di "esercizi" veri ed estenuanti, quelli su cui la maggior parte dei musicisti "di professione" si gioca il proprio destino, ne eseguo oramai ben pochi, e quelli che svolgo hanno forse l’unico obiettivo di conservarmi in accettabile "forma", in vista di qualche eventuale richiesta performativa, dal momento che da diverso tempo non vado componendo alcunché di nuovo.

Un paio di estati fa, addirittura, sono partito per le vacanze lasciando a casa ogni chitarra per un intero mese: poi, naturalmente, ho avuto qualche problema, non lieve, nel corso di una ripresa che praticamente si è conclusa solo dopo un periodo della medesima durata.

Per parecchio tempo ho persino temuto che la distanza fisica tra me e il mio strumento si fosse fatta irreversibilmente abissale, anche perché accompagnata da un particolare rilassarsi della dipendenza, come se ad un certo punto lo vedessi "da estraneo".

In effetti, questa sorta di consapevole (benché osservata) apatia potrebbe indurmi, un giorno, a chiudere con la chitarra per una seconda volta (la prima fu, se ricordo bene, nell’‘82), se non fosse che ora è tutto un po’ diverso.

Quasi trentenne, irrevocabilmente smarrita la fede comune, smisi di pizzicare quei "sei fili metallici", che in alcun modo credevo potessero "coincidere" con la mia "Anima", anche perché incurabilmente nauseato dall’idea di dover ogni volta passivamente replicare musica d’altra gente nel corso di infinite, interminabili e sempre uguali serate da ballo, ciascuna più automatica della precedente.

 

Per anni, al termine d’ogni performance, avevo giurato a me stesso "Questa è veramente l’ultima!", ma poi le cose avevano continuato ad andarsene bellamente per i fatti loro...

Un giorno, però, riuscii a tener fede a quel terribile proposito: fino allo scadere del ‘92.

 

Ora, assumere una decisione analoga sarebbe per me come sferrare calci ad un lato del mio essere che invece posso serenamente permettermi di coltivare (qualcosa senza cui mi ritroverei con un vasto ed incolmabile vuoto dentro) o rinnegare il più autentico e radicato me stesso, un caro e fedele Amico che, diversamente da un tempo, s’è rivelato, in questi ultimi anni, una sorta di protesi psicosomatica.

Esso mi ha consentito più di un significativo avanzamento sul piano metodologico-professionale e poetico-intellettuale, via via che mi è stato possibile compiere dei solidi progressi su quello tecnico-chitarristico, anche senza dover suonare "sempre" (e/o necessariamente "davanti a un pubblico").

Oggi, ogni mia "stanchezza", di natura genericamente emotiva (qualcosa che spesso ho definito "pro-gettare in negativo", per "sottrazione": una sorta di esigente minimalismo, una brama di quintessenza, una particolare modalità di accesso all’esistenza che nel tempo e per gradi ha preso piede in me), si ripercuote necessariamente sulla chitarra, con i suoi alti e bassi determinando nei riguardi di lei, oltre ad un maggiore/minore "attaccamento"/desiderio di suonarla, soprattutto una direzione di ricerca: questa che vorrei presentarti.

 

Sto mollando la presa con la più autentica e serena naturalezza, accetto di perdere quasi tutto, distacco dalla mongolfiera ogni zavorra e sempre più programmo per sottrazione.

Divento vecchio, e finalmente comincio a pensare anche un poco a me, al mio tempo....

Un Complotto d’origine, unico e universale (che risiede nella struttura stessa della mente umana: dunque, in ciascuno di noi) rende disperatamente vano ogni nostro tentativo di realmente e-sistere nel rapporto con gli altri. Ed è sulla base di questa malinconica e tuttavia asciutta illuminazione, coltivata oramai da qualche anno, che meglio vado via via programmando un’esistenza per rinuncia, assenza, svuotamento, mortificazione delle illusioni/ambizioni dell’Io. Ma riscopro anche un Montale molto affine, benché assolutamente diverso e irriducibile.

 

Il viaggio nel mondo dei più sofisticati arpeggi si intona perfettamente con questo mio progetto di pianificazione per sottrazione, con quello spudorato bisogno che avverto di tornare a me stesso, ai più vicini affetti, al tempo autentico, a quel che semplicemente ho, ad un’ecologia mentale un po’ più rispettosa anche della mia piccola persona.

 

"Arpeggiare è terapeutico".

 

 

Appendice

Ciò che qui di seguito presento, a concreta illustrazione di quanto son venuto finora "narrando", è la prima parte di una composizione interamente arpeggiata a cui mi è piaciuto assegnare, in esplicito omaggio allo scandinavo Björn Larsson,"narratore" che decisamente adoro, un titolo somigliante a quello di un suo avvincente romanzo.

Ovviamente, e in perfetta coerenza con la sostanziale impostazione "ideologica" del mio stesso articolo, ognuno potrà "leggervi" la storia che vorrà.

 

N.B. Le essenziali indicazioni fornite nel corso della partitura non pretendono, naturalmente, d’essere altro che mere proposte orientativo-suggestive.

Ogni eventuale esecutore de "Il sogno di Inga" potrà dunque ritenersi pienamente autorizzato a mutarne (secondo il proprio gusto e "sentimento") tempo, quantità/sequenza/regole di iterazione moduli, dinamiche e via discorrendo.

 

 

"Il sogno di Inga"

 

Tempo = 135

 

 

Sequenza moduli consigliata: 1 – 2 – 3 – 4 – 2 – 1 – 2 – 3 – 5 – 6 – 7 – 8